Guido Turco, Principio di estinzione

Mano nella mano
(molto lontano si direbbero montagne)
il pullover legato in vita
non mi guardi
mano nella mano è la risposta spontanea
qua e là
i brusii i colpi di acceleratore.
Lo zaino è leggero, variopinto. Dentro tutto quello che avanza.
“Nessuno ci potrà trovare” è la romanza
che ci va di cantare.

(Inedito)

Guido Turco, Curve (picchi di incoerenza visiva)

Lo spazio curvo suggerisce il movimento
ma come le onde impassibile
o i rami quando non sanno dove andare.
Adesso sfronda.
Rapidi staccati per evocare
false lontananze, distribuzioni di trama trasparente
il momento finalmente
dell’imbarazzo di fronte a una lingua sconosciuta
il grido che nessuno raccoglie, forse le formiche in fila
per quelle molliche soffiate chissà come.

(Inedito)

Guido Turco, Sulla strada che porta ad un vulcano spento

Non c’è tempo per essere intelligente
sfreccio gli svincoli
le tangenziali a raccordare
decritto segnali di lavori in corso
faccio pieni fai-da-te
arrivo e parto scambievolmente
tra le palpebre e la mente
il grado di acidità dell’aria
l’appassione dei viali
mentre scruto paraboliche
che non fanno trasmissioni
ma una condensata soma
nella mappa dei coglioni.

 

(Inedito)

Guido Turco, Orizzonti

Dalla terrazza panoramica
la cicatrice orizzontale
delle coltivazioni
orizzonte irregolare che non prevede animali,
binari, lucernari
riflessi nel moto che s’impregna del vuoto,
l’accozzaglia del tessuto urbano
e
nuove specie di parassiti circolanti
la verticalità in vetrocemento.

 

(Inedito)

Guido Turco, Toscana

Tratti allungati di ciglioni
papaveri capannoni
la sirena dell’ambulanza
mentre parli dell’ingombranza
dei lavori
che svuota di mistero
quello che ancora
in quest’ultimo di maggio
ci ostiniamo a chiamare paesaggio.

 

(Inedito)

Guido Turco, Il piccolo pianeta n° 2817

Per G.P.

Immagina un uomo che ti chieda di immaginare un uomo che ti sta guardando immaginare. Immaginalo alle prese con un palindromo di cinquemila lettere, nell’intento di scrivere un romanzo dove la lettera “e” non compare mai, o un romanzo dove la lettera “e” sia l’unica vocale usata. Figurati il rumore di fondo della vita, l’infra-ordinario come la radice di tutto ciò che è lecito apprendere, immagina qualcuno padrone di un segreto che nessuno vuole sapere ma che tutti devono indovinare. Pensa a qualcosa come il vapore che si condensa in nuvole, alla muta sospensione della pioggia sulla seta degli ombrelli, soffermati sui percorsi dell’altezza che diventa pozzanghera. Ora disegna uno sguardo, due occhi sorridenti, ripeti qualcosa come una rosa non è una rosa dunque è una rosa, ovvero le costellazioni si perdono chissà dove, i numeri dall’aria, i fulmini come scale a salire, gli alfabeti del cuore, la mano stesa affinché gli uccelletti ci arrivino a becchettare per poi volare più in là, da qualche parte, al 24 dell’Argine dell’Eternità.
Per dodici anni, alla stessa ora dello stesso giorno dello stesso mese, munito di una tabella bi-quadrato ortogonale di ordine 12 che gli aveva fornito un matematico indù, G.P. tornò a sedersi nello stesso luogo. Una volta sul posto, si soffermava a considerare la crescita di un albero, il via vai delle persone oppure in che modo la disposizione delle panchine fosse cambiata. E le scritte sui muri, le insegne dipinte ora tubi al neon, il pavé sostituito con losanghe grigie, una vetrina dove prima si trattenevano i riflessi diventata un muro con affissi gli annunci degli studenti. Una volta arrivato nel suo studio G.P. ripeteva a memoria lo stesso luogo, tirava l’acqua che il secchio del ricordo sapeva cavare da ognuno di quei dodici pozzi: il taglio di un abito, i colori del camion dei pompieri, la segreta complicità nell’incrociarsi dello sguardo di due passanti. Per dodici anni, nello stesso luogo, alla stessa ora dello stesso giorno, con la leggerezza dell’intonaco che cade da un muro, egli rinchiuse i Soli Loci in una busta, sigillandoli con la ceralacca, mittente e destinatario di un metafisico divertissement teso a scovare il carattere immobile della ripetizione, l’inebriante della vertigine della compiutezza.

 

(Inedito)

Guido Turco, La tendenza a scrivere pesante

La tendenza a scrivere pesante deve essere parente della pratica con cui mangiamo.
Mangiamo troppo e troppo in fretta, non digeriamo niente e abbiamo soltanto voglia di chiudere gli occhi.
L’evoluzione linguistica da pisolino a pennicchella a mindfullness non l’ha ancora studiata nessuno.
Attaccati a diversi alberi si trovano gli annunci per ritrovare cani e gatti. Niente da fare per mogli e mariti. Ancora non c’è l’usanza, che è anche una forma di pubblicità. Far sapere che avevi un cane, un marito, un pappagallo d’Amazzonia che è volato via.
Il cielo resiste molto in alto nella classifica delle cose più guardate e meno capite. Ma è sempre qualcosa accorgersi di un aereoplano, rendersi conto che basterebbe dargli uno schiaffo per farlo cadere. Stavo con il naso all’insù quando è arrivato il postino, carico di pioggia, ma non sembrava importasse granché. La penna per la firma sulla raccomandata gli scivolava, « come una trota » ha detto.
L’ultimo bestseller che ho comprato è una storia dell’umanità, qualcosa scritto per far concorrenza alla Torah. Si scopre che non siamo poi tutto quel ben di Dio.
Mia moglie si concentra sui libri di ricette, dice che c’è un disegno dentro, che il senso delle cose sta nascosto e una volta fatto poi scompare rapidamente.
Non riesco a darle torto, le ho solo consigliato di andarci piano.
Poi ha ripreso a piovere. Gli ombrelli se ne perdevano un sacco, la poesia più stanca raccontava quasi sempre in treno.
Ora non ne ho mai a portata di mano. Tutti persi, i magazzini delle ferrovie stracolmi di parapioggia chiusi.

 

(Da Un’ultima cosa prima di partire, silloge inedita)

Guido Turco, Non accendevamo le candele in casa

Non accendevamo le candele in casa.
Oggi, nell’era di What’s App e delle diatribe con i colleghi che qualcuno insiste a chiamare Team Building,
io e mia moglie le accendiamo,
per dare un segnale a qualcun altro che ci siamo anche noi
o perché la nostra codardia di fronte all’Assoluto si è impossassata
della scatola dei fiammiferi.
C’entrassero tutte le contraddizioni che mi tocca di far entrare nella mia vita,
ma nemmeno a saperne, quelle vengono avanti
maleducate come poche (non bussano, non mandano sms prima, vedi mai) e io devo preparare gli aperitivi
i salatini e gli insetti commestibili altrimenti si offendono, ed è peggio.
Com’è che non riesci più a risolvere questi problemi ? Una volta non era diverso dal riparare finestre rotte. Ma una volta non c’è più, è questa questione del tempo
devo dire che mi ha stancato, una buffonata messa lì per farmi girare
in tondo, e impedirmi di mettere su i dischi di Max Richter o le colonne sonore dei film western
tutte e due con una leggera vena depressiva intrufolata tra la melodia e le copertine.

 

(Dalla silloge inedita Un’ultima cosa prima di partire)

Guido Turco, Lessico Improvvisato

Viene nel seguito una teoria del distacco
le molte analogie con le frane
crepe del viso inframmezzate
a un fluttuante desiderio di nidi e filari
che non hanno il fine
di questi così inutili versi
ma casi di luce calante

metafore già contenute nel diminutivo latino Lucilla in cui i simboli formano le atomiche unità per la costruzione di selve e città che fuggono l’arbitrio di essere attraenti perché quest’Io si dice tigre sapendo che i migliori son farfalle scorpioni nel pugno e istantanee versatili per quei lunghi percorsi di circostanza che modellano la voce del protagonista come suoni della giungla perché tu dorma un sonno profondo

e gli angeli custodi ci preservino
per una successiva rinascita
le sfumature del risveglio
l’idea di un brano fantasticamente suggerito da Debussy
sempre più profondo intermezzo o scorciatoia
quel tanto che basta per non opprimere
e portarci a un punto di svolta
di fronte al serpente cosmico

come la maga che trasforma i compagni in porci salvare dall’indistinto le più antiche pietre del destino la debolezza della verità che sa cosa vuoi sentirti dire qualcosa come richiamare l’immagine di una rosa ma non il suo profumo perché io non sono Telemaco nuovamente salpato verso il post-umano ma un’anima che si attira al momento cruciale

un’entelechia servita per introdurre teodicea
con quel sorridente distacco
che nasce dal lasciare le cose
prima che queste usino tanti nomi
e non si riesca ad apprezzarne la spogliazione.

(Inedito)