Tra la folla è utile fingere,
riusciamo a toccarci i gomiti
sbucciati dalle botte di solitudine.
Le parole tese che ci diciamo
si stendono come lividi rossicci
che poi rosicchiamo per costringerci
a seguire quel frullio di piedi e occhi.
Non ci risparmiamo al tramestio
rimbambito, anche se il timore è quello
di cominciare a spellare come tante
lucertole – gialli per il sole che ci abbaglia
soli in mezzo ai soli, finti in mezzo ai finti.
La folla ci sottrae al nostro tempo
vulnerabile, è una catena di gusci irti e
colorati – un’implacabile marcia.
Avvicinarsi è l’unica maniera per non
calcolare la fine, perché noi vogliamo
smettere di centellinare le ore come
sorsi di vino pregiato sparsi in un acquaio.
Vogliamo prenderci la terra e il mondo,
essere ladri affamati, trovare il modo per
dirottare insieme l’ordine prestabilito,
espandendoci a spruzzo nello spazio
come cani randagi impazziti. E fingiamo
perché la folla non ammette uomini tristi,
quell’ostinato affaccendarsi è un grande
privilegio, un beneficio per chi non sa soffrire.
Tutto questo potrebbe chiamarsi iperattività
artificiosa: farsi inghiottire dalla folla,
diventare folla, scongiurare l’oblio.
(Inedito)