Maria Stella, Elastico

Elastico
Nell’infanzia per lo più sostantivo:
familiare e proibito compagno di giochi.
Serviva a legare le trecce di giorno,
la sera veniva strappato con furia
intrecciato ai capelli.
In una scatola a fiori,
di latta, nascosta
dentro il suo archivio
mio padre ne conservava geloso
di tutti i colori: molli cerchi
turchini e vermigli,
allacciati in lenti grovigli,
refurtiva preziosa
dopo segrete incursioni.
Sicché stupivo a casa della compagna
trovandone appesi
con incredibile scialo
larghi bracciali
alle maniglie alle porte.
Nell’ora delle lezioni
servivano a fare le fionde
per le palline di carta e saliva,
a trarne forme strane come si fa con lo spago,
a pizzicarne varie vibrazioni,
ben poco a legare stringere.
Cosa che invece pian piano
con grande educazione
l’elastico
cominciò a fare
attorno al mio corpo adolescente:
più o meno alto, piano o tubolare
contribuiva discreto a sostenere
giarrettiere e mutande,
facendosi sempre più lieve e trasparente
sulle spalline del reggiseno.
Elastici che altre mani
ancora poco sapienti
appresero presto a slacciare.
Quand’ebbi diciott’anni
con rapida improvvisa mutazione
divenne aggettivo, maschile singolare,
da rinfacciare, al negativo,
innanzitutto al compagno: non sei per niente
elastico.
Concetto che negli stessi anni si allungò, si estese
e scartando con radicale coerenza
persone,
stili di vita,
forme di conoscenza,
mirò teso
a colpire il sistema:
erano gli anni duri della teoria
anni che rimbalzavano poco
e prescrivevano fino al millimetro
l’ampiezza delle vibrazioni consentite
(agli altri naturalmente, dato che noi ponevamo il
problema)
sicché infine l’idea stessa di elastico
risultando inservibile
schioccò e si ruppe,
consegnando a noi stessi
le nostre armi spezzate.
Seguirono gli anni della resa:
accettata impotenza
in cui saggiare istante per istante
resistenza e tenuta
dei propri solitari rimbalzi,
senza più tante
presunzioni teoriche,
lievi tuttavia se quel molleggio
s’accordava per caso
alle parallele
indipendenti
oscillazioni di un altro.
Finché infine un giorno,
del tutto fuori stagione
rotolò ai nostri piedi
il frutto della maturità:
fulminea visione
in cui coincisero
il nome e la qualità,
l’uno e l’universale,
si fusero il bello e il vero:
stavolta l’elastico
– uno solo per entrambi –
era intero
reale
come noi,
in tensione
reciproca
e globale.
Rosa pallido
era
un sottile filo rotondo
stretto ad occhiello a un capo, all’altro
una di quelle palline di pezza
cucite insieme a spicchi,
– flosce arance multicolori,
piene di fini grani di ghiaia –
che da bambini piaceva
lanciare con soffici tonfi sui corpi,
poi riafferrare al volo:
metafora lucida del possesso del mondo.
Così stupiti increduli
abbiamo ripreso a giocare: e ora
ogni volta che infili al dito
quel cappio e tiri verso di te,
pronta dall’altro capo accorro
nel cavo della tua mano,
o viceversa resistendo
senza mollare
attendo sia tu a rispondere
alla mia trazione,
sicché comunque attorno
a quella sfera
– come all’arcana prima mela proibita –
convergono
sorprese,
elastiche,
le nostre dita.

(Da Accompagnarti, Il Girasole Edizioni 2004)