Julian Zhara, Nella lingua dei tuoi antenati

Nella lingua dei tuoi antenati
la parola amore se esiste è letteraria,
in mezzo ai campi si fa altro, in amore
è la patata che si squaglia, un raccolto
impazzito, è in amore un uomo che sbanda,
il bestiame che non obbedisce;
bastava allora il voerse ben.

Nella lingua dei miei antenati,
preti, ufficiali e mercanti,
l’amore viene versato altrove
e se avanza, all’amata – bisogna quindi, disporne;
e ridiamo di quanta zavorra e detriti
trascina dietro di sé la parola amore.

Nel sonno mi dici un po’ dopo, parli tanto
e che dico?, chi ti capisce, parli albanese
mos ikë, mos ikë, mentre ti blocchi
nel disegno del tappeto, të dua, pa ty
parli un tono più giù, tra un mese kam frikë
me kupton, po ti? Continuare così non ha senso,
se ieta eshte varrë, resto ancora qualche giorno
poi me thyenë kurrizin me këto fjalë, më shkatërronë,
non solo screzi, lo sappiamo, mos flitë më
ma ci sentivamo ancora, rastësishtë, gli auguri
magari mi vieni a trovare, magari è solo un sogno,
tra poco mi sveglio, jo, tani je e lirë,
tra poco arriva il momento
di andare a dormire.

 

(Da Vera deve morire, Interlinea 2018)

Julian Zhara, Ad Alessandro Burbank

Vedi amico, ciò che ci impaglia alla scrivania
a picchiettare i polpastrelli ormai in carne viva,
altro non è che un segno d’uguaglianza, abrasione
da asfalto, condannati a perimetrare a piedi
le periferie del giorno dopo, intaccando
educatamente il mondo, negli aperitivi
dove anche il cielo sembra spruzzato di Campari
e denti con altri denti iniziano una danza
speculare, ed è tutto un ritardare il ritorno
e non rimane che il ritardo in fondo all’ultimo,
per poi andare verso, calciando bottiglie rotte
addosso ai sogni, i cocci esplodere nel vuoto.

 

(Inedito)

Julian Zhara, Fuga in minore

Quelle chiazze prugna che ti abitano il corpo
affittate all’equivoco dei tuoi sogni infantili,
dagli attori dei film preferiti, ammaliata,
sotto lenzuola strette tra i denti,
argini contorta torrenti di carezze,
esalando vapori, espirando vocali
sul tuo grembo e sussurri e ti gratti che il prurito
più dolce non spalanca il sorriso, l’abisso rispecchi.
Le sillabe alitate all’orecchio delle amiche
le converti in fraseggi una domenica pomeriggio,
il parcheggio di una zona industriale ti avvita
e l’incastro funziona, il meccanismo ti è lieve,
sfogliata da dita imbevute di saliva
liberi farfalle, doni il sangue per un pugno di baci
iniziati come ondine e schiantati su scogliere;
un faro t’inonda le maniglie di fiotti di luce.
La tua vita da lì l’hanno scritta altre mani
clandestine di chirurghi, nocche d’artrite,
uno sputo a lavarti il peccato dalla pelle.
La finestra ti dirige la soluzione verticale,
mentre al water confidi il tuo pasto di dolore
mentre il cuscino ti dimostra che non passano le ore:
l’orizzonte si dilata del tuo umore oscurato.
Una mattina le nuvole sussurrano conforto,
il rispetto ha un prezzo, non si paga col rimorso,
la maniglia di ferro a stringerti le mani,
la sofferenza senza anestesia redime, diceva
tuo padre, tua madre sorrideva, il piacere
di sottrarti dal dovere di portare alla luce
il germe dei tuoi incubi. Tu zitta a fissare
il bulbo del tuo primo amore nuotare
dentro l’opaco vetro dei sottaceti.
Non più silenzio a coprirti le spalle
ma cristalli di ghiaccio a incidere, ferire;
e la schiena bambina farsi palcoscenico
dei burattini di paese, dell’indice peloso
che ti disegna stilizzata. Un mattino
ti raccogli e voti l’uscita con lo zaino
di scuola unico testimone, saluti la cucina
che del riso rimane il biancore del sale.
Il salvadanaio a pezzi in mezzo alla stanza,
tra lo stereo, le cassette della band preferita,
intonando un motivo, sei partita per sempre.
Nostalgia e attesa parallele sui binari,
la stazione dei treni conta i rimpianti,
ospitale a chi non ha niente da dire,
e le strade si confondono coi sogni col cinema,
troppo in alto da cogliere troppo in basso per star fermi
a guardare negli occhi la propria vertigine.
Su un dirupo tasti il polso agli uomini soli,
un lampione non può consigliare di meglio,
hai imparato che l’amore non si cela in frequenza,
hai imparato che è difficile soffrire davvero.
Mentre guardi i palazzi di fronte adesso
l’ambulanza che passa ma non è per te,
un contratto diverso ti ho promesso e il mio nome
non è quello che ti ho detto, ti pende un perché
dal ghigno che ti strappa dal corpo la vita.

 

(inedito)