Eunice Odio, E sto come le rose

E sto come le rose
disordinando l’aria.

(Da Come le rose disordinando l’aria, a cura di T. Pieragnolo e R. Gallitelli, Passigli 2015)

Domenico Brancale, essere in tanti essere il respiro di uno solo

essere in tanti essere il respiro di uno solo
dell’uomo piegato
da un tempo che stenta a fiorire
gli steli mancano petali e corolla
quei petali strappati uno dopo l’altro
recitando «muoio, non muoio»
finché non rimane nulla fra le dita
se non il referto bianco
«scrivere è leggere il tuo corpo»

 

(Da Per diverse ragioni, Passigli 2017)

Annelisa Alleva, La nostalgia è il peso di cui consiste

La nostalgia è il peso di cui consiste,
il mare che lo nausea,
rende capace di resistere e mancare,
possiede come scrigno la chiave,
circonda come toga leggera,
fortifica e estenua.
Il tappeto della sua voce
quando scende e si posa.

 

(Da Caratteri, Passigli 2018)

Rosa Gallitelli, Biografia delle piogge enormi

Cerchia o coincidenza di ciechi,
corona di un àmbito agli sgoccioli;
filo un’aria di fondale stempiato
dalla velocità di pesce,
lungo un diurno boreale buio
le esacerbate fronti in lampo cervidi
di erti, pronti vedenti;
e fra quel radicato assenso e il nudo
noi solo due fogli accolti,
attesi giunco dal diluvio,
sentimentalmente scalzi chiamati,
cordone o coro di spuntati verso
l’acqua che sta per rompersi,
rendersi uscio stupendo ai giubilanti,
giunti bambini a dominarsi
muta miriade;
fra doglie da fiorame a vento,
fra giunchiglie in cui crescita udivi
lavabo albo in fondo un sonaglio
ovunque allargato e propenso,
alloggiare l’elenco del fragore
già sfrondato dalle piogge, avvicinarsi.

L’arrivo un virgulto d’amapola*,
soglia abnorme da cui ecco il rovescio,
soglia cui ecco gli accorsi nudi:
foglia informe foggia del piovasco
con palmi e lingue, con scevri piedi,
nel pregno mondo esploso urto liquido,
e come in placenta dispersi;
un’istantanea acquea, monda,
di ricomparsi in plaga o lente della nascita.

Finalmente la grande forma.
Ci investiva il diluvio curvo,
l’odore di stagione cruda,
colmo d’orma e in nari cupo.

Solo infine il fiotto adunato
di un acqueo lento lucente fango
scendeva caldo fra i caimani,
coronava le Iguana di fiumi,
le nuche spoglie sgrondate
quando fra i denti lo squarcio,
quello squarcio avevano ancora,
il denso giglio del diluvio;
come bagnate ammettessero
di aver venerato qualcosa,
forse lo sceso e capace
caldo corpo del cielo riverso,
un suo linguaggio confluito,
mutabile e temuto carne,
fabula o cuore di nube,
di esseri salvi ora in folli acquai, in folli specchi,
in sfondi fluiti mondati.

Così noi, solamente roridi,
accordati agli animali liquidi
da quel diluvio forse idolatrato
come in rituali o biografie;
come solamente di passaggio
anche noi nell’ocra di quell’acqua,
nel butto o affresco di un piovasco smunto
per nascere più vividi usciti
da mesi lunghi, dalle sue lingue,
pettinati e chiusi chiari
nel grande muscolo del cielo
mitilo, schiuso vivo:
cibo in cui scalzo palpiti
illuso dal grande baccello,
dal panico bello nel prelibare
con spavento, con lingua tanta,
l’acqua scorsa e folle e raccolta,
e per cui ora appena sorridi
slattato da quanto in segreto
sei stato foglia, e divelto quasi;
hai inviso o ringraziato l’acqua, la più scesa,
sazio digiuno pazzo nel suo pudore
rotto, di noce alta,
scisso in diluvi al volto.

Solo con l’anno. Solo col limo.

Quanto mistero largo ingenuamente
continente puro.

* Fiore d’ibisco.

 

(Da Selva creatura leggera, Passigli 2015)

Tomaso Pieragnolo, Io canto nel tuo nome

Io canto nel tuo nome perché tu
da un luogo lontano tu mi senta richiamare
perché giunga alla tua bocca questa goccia
e una sete pendente
ci racconti il vecchio mondo, la terra
già perduta nell’essenza ma sempre solvente
inalterata perfezione. Come i versi
necessari degli uccelli, degli alberi mistici
imbevuti di foschie, con un atto
della mano sulla fronte magari potrà
provocando un sorriso con lusinghe agghindarla,
quando è tempo di partire
con parole abbracciarla, ricordando
coniugato sul suo viso come sarà
sotto i suoi piedi un cammino, le sue mani
che maneggiano fiorami e sopra le vette
una parvenza di silenzio; ragazza
che un enigma vai tessendo con nembi
d’inchiostro sotto il dono di stagioni, che non sai
mai terminare né iniziare, né forse sommare
al tuo continuo cambiamento, confida
nella vita in ciò che sogni e certo un mattino
così vicino, tratteggiando il tuo profilo
mentre dormi lei ti ammalierà
per una volta ed una ancora, e tu
dal passato saprai sorriderle.

 

(Da Viaggio incolume, Passigli Editore 2017)

Tomaso Pieragnolo, Viaggio Incolume (estratto)

[…]

Lei solleva la sua mano e gli sussurra «io
ti aiuterò in questo scricchiolio di ponte
in cui ogni passo è incerto ed ogni cielo
è come un alterno di stoltezza e di clamore»;
perché da questa notte così buona lei
ha imparato contro il male a bestemmiare,
a insegnargli ad occhi chiusi a immaginare
le poche nevralgiche illusioni come nuove,
contando nel suo sonno tutti i sogni che in corto
frangente si erigevano a fortezza; con il miele
che conosce avrà condotto lontano
le fervide utopie di storie appese
dentro al vento come abiti a seccare, o dentro
l’autunno come ali per volare, nel risveglio
solo ali per amare o per inazzurrarsi
pur restando sempre soli, altere
per raggiungere i suoi baci pertanto
disabili nei sogni che ha guardato
concedersi alla vita che ci è data. Non sarà
questo suo corpo che comprende l’avara
invenzione che ostinata ci scolora, ma
uno sguardo che accecato tutto vede e tutto
scorda eccetto ciò che è sconosciuto, che divina
tutto ciò che ha preservato per questo
presente claudicante nel suo ufficio
di morire e poi rivivere ogni giorno.

 

(Da Viaggio incolume, Passigli Editore 2017)

Eunice Odio, Carta A Uno Que No Viviò Como Quiso

Carta A Uno Que No Viviò Como Quiso

Hermano, amigo mío,

para ti esta carta que se hace esperar

como los renuevos del pecho en verano.

Te cuento que he pensado mucho en ti

y te veo ahora con tu cuello enclavado

huyéndole al torso y a las manos:

con esa tu manera de tener los pómulos

fuera de ti,

más lejos de tu piel que de tu nombre.

Como creo que te dije, voy a llegar de pronto

un día en que no viaje nadie,

un día desigual que acudirá a mis ojos

cuando yo lo llame

y desfilará por mi perfil

crecido de racimos y rebaños.

Pero ahora, precisamente ahora,

teniendo frente a mí una madre de Picasso

de la época azul,

una madre inundada de sus maternos ecos

y de sus propios verbos circundada,

por cuyos labios desemboca un niño

entrecortado y mínimo,

precisamente ahora – digo –

me aviene tu casa al recuerdo

y sé, por el olor y la pasión y el tacto,

lo que me va a decir cuando regrese:

lo del palote en la quietud del niño

y lo del delantal con iniciales,

a la orden del día en los acuerdos familiares.

«Pobre pequeño, se cayó del naranjo

la semana pasada, todo entero cayó,

y no le quedó arriba

más que una parte mínima de labio,

para llorar muy alto por la rodilla

y el vestido y la caída.»

Y la muchacha altísima con párpados de uva,

donde discurren por la tarde las golondrinas,

y la tía con peinetas en el pelo oloroso

y los brazos dulcísimos.

Y el pan a contraluz de terciopelo

a cuestas en los cestos deslumbrados,

el pan oído siempre,

en la forma mudable de los brazos,

el tierno pan

hermano primogénito del trigo,

cuya cadera se quebró en el llano.

El pan, hermano,

el pan,

pan de tu casa

y de la mía

y del hermano eterno que nos sigue.

El pan que justifica la blandura en paz,

el que hace que miremos para arriba la tierra,

el de la levadura trascurrida en un abrazo.

El pan del hombre que reposa

con mi cuello en su alma

y con mi vientre en su hijo;

el tuyo,

el mío,

el de todos.

Por el que,

cuando en las vendimias anochece,

todos preguntan si llegó a la boca,

o si es su olor de acostumbrada albura

que regresa a la boca,

que antes que el pan encarna

y es el verbo y la voz de la paloma.

Te he hablado del pan,

hermano,

y de tu casa

en que la levadura crece por la noche

y se la siente levantando

el edificio de la sangre;

en que la levadura

organiza el silencio que la habita,

agrupa el aire

y funda el agua que la hagan

honda materia congregada y pura.

Poco tengo ya que decirte,

si no es que para hablarte de todo esto

he dejado momentáneamente entre mis cosas:

libros, cuadros, trajes,

mi corazón en rama,

y estoy ahora tan cerca de su ausencia

que hasta ignoro su causa;

tan por debajo de él que he de regresar ya,

sin tardarme,

para ayudarle a realizar su oficio

de palpitar a tiempo y alcanzarme.

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Lettera a uno che non visse come voleva

Fratello, amico mio,

è per te questa carta che si è fatta aspettare

come i germogli del petto nell’estate.

Ti scrivo che ho pensato molto a te

e ti vedo adesso con il tuo collo inchiodato

che fugge dal torace e dalle mani:

con questo tuo modo di tenere gli zigomi

fuori di te,

più lontano dalla tua pelle che dal tuo nome.

Come credo ti dissi, giungerò d’improvviso

un giorno in cui nessuno viaggia,

un giorno ineguale che accorrerà ai miei occhi

quando io lo chiamo

e si sfilaccerà nel mio profilo

cresciuto di grappoli e di greggi.

Però adesso, precisamente adesso,

che ho di fronte una madre di Picasso

della epoca azzurra,

una madre inondata dei suoi materni echi

e dei suoi stessi verbi circondata,

dalle cui labbra sbocca un bimbo

intermittente e minimo,

precisamente adesso – dico –

mi viene la tua casa nel ricordo

e so, dall’odore e dalla passione e dal tatto,

che cosa mi dirai quando ritorni:

del colpo nella quiete del bambino

e del grembiule con iniziali,

all’ordine del giorno negli accordi familiari.

«Povero piccolo, cascò dall’arancio

la scorsa settimana, tutto intero cascò,

e non gli rimase altro

che una parte minima di labbro,

per piangere a dirotto per le ginocchia

e il vestito e la caduta.»

E la ragazza altissima con palpebre d’uva,

dove discorrono nella sera le rondini,

e la zia con pettinini nella chioma odorosa

e le braccia dolcissime.

E il pane in controluce di velluto

sui declivi dentro cesti abbagliati,

il pane udito sempre,

nella forma mutevole di braccia,

il molle pane

fratello primogenito del grano,

il cui fianco si ruppe in pianura.

Il pane, fratello,

il pane,

pane della tua casa

e della mia

e del fratello eterno che ci segue.

Il pane che giustifica la mitezza in pace,

quello che ci fa guardare verso l’alto la terra,

quello del lievito che trascorre in un abbraccio.

Il pane dell’uomo che riposa

col mio collo nella sua anima

ed il mio ventre in suo figlio;

il tuo,

il mio,

quello di tutti.

È per lui che,

quando nelle vendemmie imbrunisce,

tutti domandano se arrivò alla bocca,

o se è il suo odore di abituato albore

che ritorna alla bocca,

che prima del pane incarna

ed è il verbo e la voce di colomba.

Ti ho raccontato del pane,

fratello,

e della casa

dove il lievito cresce nella notte

e lo si sente sollevare

l’edificio del sangue;

dove il lievito

organizza il silenzio che lo abita,

aggruppa l’aria

e fonda l’acqua che lo fanno

profonda materia radunata e pura.

Ho poco ormai da raccontarti,

se non fosse che per svelarti tutto questo

ho lasciato momentaneamente tra le mie cose:

libri, quadri, vesti,

il mio cuore in un ramo,

e sono adesso così vicina alla sua assenza

che quasi ne ignoro la causa;

tanto assoggettata a lui che devo già tornare,

senza attardarmi,

per aiutarlo a realizzare il suo compito

di palpitare a tempo e di bastarmi.

 

(Da Come le rose disordinando l’aria, a cura di Tommaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli, Passigli 2015)