Rita Imperatori, Elogio dell’attesa

io so la fatica dell’andare,
conosco il rumore dello strappo
quando chi resta ti saluta con la mano
che s’apre e chiude piano
a dire: “ciao, ti aspetto”.
Ciò che non so è il pianto di chi sta,
silenzioso per non essere di peso;
è il dolore di chi ha legato le tue trecce
e ora spera solo che tu rimanga a cena.
tu invece vai,
a spendere di te la miglior parte
dove s’apre uno spiraglio di fortuna.
oh, le madri che ho lasciato sul balcone,
strette in un destino scuro
come la povera vestaglia di ogni giorno
e il viso triste di chi non ha
perché non chiede niente.
È tra le dita di chi attende
il bandolo che prima o poi vorrai trovare
quando, tornato, sentirai la memoria che si smaglia
e avrai bisogno di appoggiare le radici
nella terra in cui sono germogliate.
Vuoto però è il balcone quando ora,
uscendo, mi volgo verso casa:
adesso torno solo con la borsa della spesa,
senza valigia, ché il viaggio è breve.
Lo spasimo che avverto è nostalgia di mani,
di quelle mani odorose di bucato,
fitte dei segni duri del lavoro,
lievi nella carezza del saluto.
Vorrei che quelle mani ancora mi legassero le trecce,
lunghe e robuste come le corde che pendono in
cantina,
sì da tenerci stretti tutti insieme,
per riprenderci il tempo gocciolato nello strappo.

 

(Da La seconda parte, Leonida Edizioni 2017)