Fui iniziato all’arte nell’illusione
di portare un po’ di luce a me
medesimo ed al mondo; mi sbagliavo.
Non so di preciso cosa ho sbagliato:
se certe letture o quell’erudizione
che ricercavo in biblioteche e scuole
tralasciando l’intensità che duole
ad ogni passo sulla riva impura.
Ma il duri finché dura la costanza
è già finito, consunta quella rabbia
aristocratica che mi portavo sulla
schiena, come un masso, quella teatrale
messa in scena che è la vita e non è
la vena, né la poesia…
Ma in questo dopo dopo dopo guerra,
dove la terra è fragile ed i piedi
esausti, a prima mattina serra
la voce un diniego soffuso sotto
pelle, nella carne ardente. E come
vedi non scrivo più poesie d’amore,
né rubo rose alle coltivazioni
industriali per donarmi in qualche modo
un breve lapsus accidentale.
Si va, anzi, si va nell’acqua sporca,
si continua la ricerca nell’epoca
delle fermezze, delle decisioni
inesorabili, mentre inesorabile
per noi è solo il mattino, è questo
scarno tentativo che nel sangue
cerca di salire alle arterie, al cuore.
Ma è un’aspettativa schizofrenica
che in fondo il fondo di rinuncia sfiora
spesso, quando a sera per esempio guarda
il popolo rientrare dalle feste
al mare, dagli chalet che si riempiono
di luci e battiti animali: che si vive
giovani per già dimenticare qualche
cosa di non visto, non vissuto.
Eppure il trauma ce lo troviamo impresso
dentro, come un marchio a fuoco,
come un battesimo insaputo
che soltanto a tarda notte conosciamo.
(Da Battesimo, LietoColle 2005)