confidare in una morte estiva, rabbrividire
concedere alla solitudine (a prati declinanti
fioriti in fretta, a penombre fondissime
a qualche impercettibile vicinanza o ronzio)
la veritiera e impossibile condizione, se l’occhio
liquido, viperino del dio, la sua capacità
di enunciare il mondo, mentre il piede procede su scisti
e selci e rocce che s’aprono in scaglie in quasi lucide
in lamine scottate; ancora un vento fresco
a confondere a ubriacare sulla pelle bruciata
dal mezzogiorno, la potenza del continente
la dorsale del massiccio sotto i piedi, capace
di aggredire, di avvelenare l’aria di sue parti
minutissime, di vertiginose profezie; tu stesso
quasi-mostro o creatura lunare in quegli occhiali
da ghiacciaio, assistito al respiro, a vederti –
finalmente giunto in luogo disperso, in parte
di microspazio, in frangente o quanto – a vedere
te che come lontanissimo sollevi una
gamba e senza più rumore alcuno poi
abbassi il piede a terra e sali ancora uno
o due passi – la fatica, il dolore stesso quasi impercettibili,
sulla bocca il sorriso di una lucida,
appena sussurrata negazione
(Da Disarmare il nome, Italic 2016)
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