Roberto Ariagno, Sotto le nuvole l’azzurro

sotto le nuvole l’azzurro, il ferro del paese
le corse per la muta, la peristalsi, è qui
che morde la primavera, agli inizi della conoscenza
                 (il vento sui piazzali
le facciate mosse da un transito di luce
quando la fame era già manifesta
e una corrente agitava i risvegli
                poi la svolta di un’allegria
se dai corridoi esterni portano aria
schiudono gli spazi tra le parole
zitti riempiono di bianco la stanza

(Da Il tempo di una muta, Kurumuny Edizioni 2020)

Roberto Ariagno, Se la risposta è tutta nella curva

se la risposta è tutta nella curva
appoggiata all’azzurro della nube al tramonto,
quando l’errore è nella domanda, il bisogno
che corre dietro allo scarto della bellezza
(poi la sfida
è farla tua, la leggerezza della fuga
la riconoscenza del rinunciare (trova soltanto
chi non cerca, e qualcuno qui sotto parla al cellulare
di quando saranno liberi i locali, alza la voce,
di colpo è estate e si fa largo una lentezza
(i corridoi che affacciano sulla collina, le finestre
dai serramenti che ti aspetti consumati
il metallo insolito di certi oggetti quotidiani,
era sempre un oriente l’attesa di giugno
ma hai provato l’arte del diminuire,
come farne una condizione, una forza
(i passi accarezzano la terra, ascoltano,
tu stai di fronte alle spalle nude di questa discrezione
percorri la discesa o il sorriso, abbracci la tua fortuna
senza colpa: è stagione d’altri tempi, arriverà
quel che dimentichi da settimane,
ti sposti di lato, sei l’altro
e non ti perdoni

 

(Inedito)

Roberto Ariagno, Lo splendore osceno del pomeriggio

lo splendore osceno del pomeriggio
si fa spazio sterminato, steppa
di abbandoni abissali – i due indifesi
a metà settimana fino al rientro serale,
all’accortezza del buio
(ma qui la distanza
è un altro tempo, la luce impietosa svelava
le consistenze dei corpi, fissava le fughe
in qualche deriva provinciale:
si fuma sotto casa,
qualcuno è sceso da un’auto vestito
come fosse inverno, saluta e si guarda intorno,
la moglie l’aiuta a rientrare a passi brevi,
la strada si svuota e non lascia scampo
l’azzurro conclusivo: ci si riarma, una ruvidezza
di vetro resta al fondo delle parole
e ne ingoi la chiarezza astiosa,
ti arrendi al vero dell’apparenza

 

(Inedito)

Roberto Ariagno, confidare in una morte estiva

confidare in una morte estiva, rabbrividire
concedere alla solitudine (a prati declinanti
fioriti in fretta, a penombre fondissime
a qualche impercettibile vicinanza o ronzio)
la veritiera e impossibile condizione, se l’occhio
liquido, viperino del dio, la sua capacità
di enunciare il mondo, mentre il piede procede su scisti
e selci e rocce che s’aprono in scaglie in quasi lucide
in lamine scottate; ancora un vento fresco
a confondere a ubriacare sulla pelle bruciata
dal mezzogiorno, la potenza del continente
la dorsale del massiccio sotto i piedi, capace
di aggredire, di avvelenare l’aria di sue parti
minutissime, di vertiginose profezie; tu stesso
quasi-mostro o creatura lunare in quegli occhiali
da ghiacciaio, assistito al respiro, a vederti –
finalmente giunto in luogo disperso, in parte
di microspazio, in frangente o quanto – a vedere
te che come lontanissimo sollevi una
gamba e senza più rumore alcuno poi
abbassi il piede a terra e sali ancora uno
o due passi – la fatica, il dolore stesso quasi impercettibili,
sulla bocca il sorriso di una lucida,
appena sussurrata negazione

 

(Da Disarmare il nome, Italic 2016)