Carlo Giacobbi, Alle vittime dell’Holodomor

Alle vittime dell’Holodomor

È disquisire sul vello della capra –
sofisticheria d’accademia, fare a quarti
il capello ascrivere ad estirpazione di genia
ad animo di estinguere dei Pugni il seme
o a collaterale effetto di scellerata economia
la primigenia intenzione di Koba.
Il dato, la messa in conto, per favore –
il risultato: ben si dica genocidio consegnare
ad inedia la moltitudine laboriosa, la recalcitrante
etnia produttiva all’organizzato
sistema di razzia della proprietà sudata.
E già – si capisce – cavare due patate, cogliere
un cavolo, la bocca sulla terra tutto l’arco
del sole – chi non vede, in questo, al popolo
insulto, le campagne al capitale?
Estreme, superstiti voci, fiato torto che il groppo
assottiglia, neanche ridirlo all’infinito
capacita, non c’è pietra
– non esiste – da sovrapporre allo strazio –
a vivere mille anni resterebbe
il primo mortuario pensiero del mattino.
Subumane, quasi esalate parvenze, fuscelli
al vento, nel ciondolarsi di crani
casuali alle vertebre, becchi adunchi –
strabismo d’orbite, strascinati inconsci del dove
tra ammonticchiati esamini sulle strade
o quelli sui carri o nelle tombe d’isbe
che furono un fuoco, un pane.
La bambina scomparve, andai a casa sua –
mozzata la testa, il corpo nel forno.
Il neonato per ore a tirare dallo straccetto del seno –
viene niente e litanico piagnisteo scempia chi lo ama
la testina sull’albero e silenzio, sangue rappreso
su scheggiati ossicini e radi ciuffetti.

 

(Da Oltre il visibile, Arcipelago Itaca 2019)

Carlo Giacobbi, L’impegno di gioire

Benedico il giorno, prometto
d’aggirarmi meno lupo, sto alla luce
che è, alzo un saluto, mi accorgo
a poco a poco, d’essere nel mondo
assumo l’impegno di gioire.

(Da Oltre il visibile, Arcipelago Itaca 2019)

Carlo Giacobbi, Elementi

Elementi

I

Donaci la quiete dei tuoi millenni
di letargo, acqua,
l’accumulo del riposo, la conservazione
delle forze. La donna in fila col bollettino
in mano si morde a sangue il labbro, è snervata
dalle impazienze: riprendere i figli a scuola,
improvvisare un pasto ed altri picchi
nella mente sbalestrata. E la sera
poi, non ritrovare l’auto nel parcheggio, preferire
l’ipotesi del furto alle amnesie.

II

Donaci lo slancio dei tuoi rami, il risveglio
delle foglie, legno,
la crescita serena che la luce affina, il ristoro
assorbito e diffuso dalle profondità. Il ragazzino
con l’occhio mezzo – di pesce lasciato da giorni
nella cesta – è gravido del suo niente, attinge
a linfe eteree, a volontà assorte di erigersi
sulle sue radici cave, morte.

III

Donaci il miracolo delle tue accensioni, la perseveranza
dell’ardore, fuoco,
l’incoercibile giocondità delle vampe, la festosa
consumazione. Il ragazzo per scaldarsi
tracanna un vodka – Martini dietro l’altro, arriccia
il labbro al naso nel deglutire, o si cala, s’infarina
d’un tiro: vive euforie da cerino. Ma è lì – in quella giostra
di luci e volti senza destino – che vorrebbe bruciare:
d’un amore infinito, immortale.

IV

Donaci la pazienza delle tue gestazioni, il faticato
raccolto, terra,
l’umiltà del tuo livello, la concretezza
dei tuoi cicli. Il sangue che non torna le scombina
gli alti piani. Portare a maturazione, che comporta?
Discendere le scale? È retrocedere insomma
questo avanzare? S’insinua galeotta nella mente
l’idea che la natura non contempla se non in forma
d’accidente: nodo in luogo di ramo, icasticamente.

V

Donaci la resistenza ai martellanti colpi, il rinculo
dall’incudine, metallo,
l’ostinato e sereno restare d’un pezzo davanti
al più bieco disprezzo.
Ma poco basta al nostro vaso di ferro
farsi terracotta, segnarsi di crepe o sbreccarsi
– di volta in volta – che la vita urta
e frattura: è lei la sostanza più dura.

(Da Confidenze, Il Convivio 2016)