Giuseppe Nibali, Tutto questo rumore umano che ti canto

Tutto questo rumore umano che ti canto
è il dolore bambino dei giorni nel sorriso
da rivista, col rossetto ora mi parli sicura
dei treni e hai la mano a coprire la luce del
viaggio, dei baci alla fronte nel segreto delle vie.
Io faccio tutto per dirti, per chiamare lo spicchio
di sole sui tuoi occhi e penso sia fisso in te
il bene che si muove per il mondo.

Come ti chiudi a tenere il reggiseno nel volo
dell’acqua o sui balconi dove si svolge una
solitudine che non senti ma spaventa,
spaventa chiunque, anche gli altri (ed erano molti)
a buttare il dolore dalle ringhiere, e sporti
anche noi, amore, in questo alveare guardiamo
insieme la partita, ora io sono tornato,
ma forse è più importante la partita, non rimane
altra metafisica, neanche la finzione
della risposta, della domanda:
«ti disturba questa storia?»

«No, aspetto ancora tutto il tempo. E poi dopo, altro tempo, per abbracciarti. Tu rilassati Ti porto qualcosa, qui sul balcone, un’insalata di mare Ma divertiti, guarda la partita, ché ha ripreso a piovere, e c’è un silenzio perfetto, non dobbiamo annaffiare il giardino, si sta bene così oggi, i bambini sono a scuola, dopo magari, più tardi, sarebbe bello fare l’amore».

 

(Da La consolazione della poesia, a cura di Federica D’Amato, Ianieri Edizioni 2015)

Federica D’Amato, Scrivere

Ora è diventato qualcos’altro.

Svegliarsi alla stessa ora, lavarsi
il cibo al cane, la pallina, la passeggiata
lavorare per un pezzo di veleno
poi ricordare di come si stava
quando c’erano tutti
e ci si credeva, ci si uccideva
tutti per la parola insuperabile
per la verità che ora lo so
non era altro che il nulla di ora
un po’ di pianto se arrivava domenica.

Ora è il sacchetto rosso sulla spiaggia
quando dicono è un bambino
e non si muove e guardarlo fino
allo sfinimento non è salvarlo
ma farlo sparire
è pensarlo con le fitte e le righe
di sangue dentro all’ago del vero
saperlo nostro e non sapere cosa
fare, cosa fare?
È l’impronta del suo piccolo muso
sulla sabbia che nessuna memoria
può tenere perché non è tenere
lasciare che muoia la vita
prima della vita
è il fatto che accada
nonostante, dopo
non possa più accadere altro
perché questa è la parola insuperabile
questa la domenica di dove
non resta più niente da dire.

 

(Inedito)

Federica D’Amato, oggi invece mi imbarcherei

Oggi invece mi imbarcherei
col peschereccio delle 4
senza dirlo a nessuno
o forse no, dirlo a modo mio
a Mario, pesce d’aprile
classe 1924
molti anni prima
di diventare mio nonno.

Porterei un sacco di noci
le calze di lana un quaderno
tre matite di ciliegio la fine
dell’acqua il sapone delle rose
il seme e il fazzoletto di lino
il coltellino il fermaglio
e un amore.

Un amore da annodare al vento,
al mattino delle vele
quando chiudono le onde
alle sirene tutte le partenze.

Da annodare al tuo ritorno.

(Da A imitazione dell’acqua, Nottetempo Edizioni 2017)

Federica D’Amato, L’ultima volta che ti ho visto eri vestita d’alloro

L’ultima volta che ti ho visto eri vestita d’alloro
una frase cadeva era la fine di febbraio
in un errore marzo si preparava alla pioggia.
Era l’ultima volta
poi dove ti avrei riconosciuta tra quali pietà
abbeverate nei boccioli in fiore
tra quanti volti usati dal lunedì al lunedì
successivo per usarmi l’abito dell’ultima volta.

La prima fu un pomeriggio di provincia
comprai doveleinonè di Roland Barthes e fu un presagio
tu parlavi del finimondo io perdevo gli occhi
nel sogno delle tenerelle astrusità agli angoli della bocca
c’era sempre una via di fuga che non era l’amore
ma la ragione più forte del nostro parlare.
Poi cosa venne se non la seconda la terza la quarta
l’ultima volta, cosa avvenne se tu eri una pazza
io una camicia, una ninnananna ti piangeva dalle mani
se l’ultima volta è il primo giorno da quando
non ti ho mai più incontrata.

L’ultima volta se infra gli affanni noi potessimo
contare i garofani di Celan che volano qui a sinistra
dove le sigarette la sera sbandano fiotti,
violano cercano qualcuno che entri dal sinistro occhio
di quella volta che fu la tua voce
una poesia per gli alberi caduti
il mio sguardo sarà l’addio
il nome delle icone
la lingua che ti cadeva tra le gambe
con la precisione dell’assolo.

Alla fine l’unica cosa buona che ho fatto
è stata volere bene a Mirù
amare i miei nipoti
salutare mia madre
perdonare mio padre
credere alla donna delle carte.

La prima era sempre il dispiacere.

(Da Avere Trent’Anni, Ianieri Edizioni 2013)