Mario Luzi, I Magi

Non ha volto, si cela
dentro sé il tempo –
così ci confonde
esso, ci gioca
con i suoi inganni –
a volte
duramente,
duramente ci disorienta.

Ed ecco, in un frangente
prima non osservato
o in uno
sorpassato
dal flusso
e dimenticato
o in altro ancora
rimasto
oscuro dietro le dune,
qua o là,
qua o là, seme sepolto
in terra molto arida
e molto pesticciata,
potrebbe all’improvviso
il futuro disserrarsi
in luci, sfavillare il tempo
dove? da una qualsiasi parte.

Andavano cauti loro, i Magi,
occhiuto era il viaggio
in avanti
o a ritroso? procedendo
o tornando
ai luoghi
d’un’ignota profezia?
Sapevano e non sapevano
da sempre la doppiezza del cammino.
L’avvenire o l’avvenuto…
dove stava il punto?
e il segno?
da dove era possibile il richiamo?
Non è ricaduta
inerte nel passato
e neppure regressione
nel guscio delle cose già sapute
questo
ritorno della strada
spesso
su se medesima,
ma nuova
conoscenza, forse,
ed illuminazione
di un bene avuto e non ancora inteso –
dice
uno di loro
e gli altri lo comprendono
sì e no, ma sanno
ed ignorano all’unisono…
e proseguono
insieme,
vanno e vengono
insieme nel va e vieni del viaggio.

 

(Da Frasi e incisi di un canto salutare, Garzanti 1990)

Antonio Porta, Incamminarci

Al giro di boa ancora fiammeggiano le querce,
celebriamo il passaggio dell’anno, del fuoco
quello appena nato non può temere il gelo
tutte le foglie lo trattengono nel calore
fin che possa liberare le ali piumate
ruotare sopra di noi che dormiamo, incamminarci.

(Da Tutte le poesie, Garzanti 2009)

Antonio Porta, Buio contro buio

Buio contro buio
la scrittura come un lume lontano
o invece si apre al presente
e respiro di nuovo
e ho voglia di anticanto
poesia dell’antimateria.

 

(Da Tutte le poesie, a cura di N. Lorenzini, Garzanti 2009)

Antonio Porta, Cercano di dare un tempo alla morte

Cercano di dare un tempo alla morte
poiché non ha dimensioni, è il vero
nostro infinito; così dicono alle ore
10 e 11 minuti ma non è vero
si era visto invece come si preparava
rannicchiandosi nella posizione fetale.
Quando si sedeva in macchina accanto
già prendeva quella posizione: l’auto
come il ventre della madre e via fino all’arrivo.
Quella volta in attesa di una morte in anticamera
ho sentito dire che negli ultimi tre minuti
la sua vita è precipitata nel senza tempo
nell’ultimo eterno minuto i dolori
raggiungono il loro acume, se ne vanno con l’anima.
Ma è un bene essere privati del tempo,
è un furto che genera abbastanza e dona
una pace non sperabile, raggiunta senza speranza
da un istante all’altro la dimensione è solo spazio
mare bianco increspato nella mente spalancata.

 

(Da Tutte le poesie, a cura di Niva Lorenzini, Garzanti 2009)

 

Amelia Rosselli, Tutto il mondo è vedovo

Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora
tutto il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo
è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il
mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo
è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo
una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi
dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno
non è che notte per la tua distanza. Cieca sono
ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini
e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini
ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.

 

(Da Variazioni Belliche, Garzanti 1964)

Paolo Ruffilli, La parola per me

La parola, per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel
suo dirlo, di colpo
riafferrato.

 

(Da Piccola Colazione, Garzanti Editore 1987)

Amelia Rosselli, Fra le stanze che oscuravano la mia viltà ve n’era una che

Fra le stanze che oscuravano la mia viltà ve n’era una che
rimbombava: era la notte. Io mi fingevo pazza e correvo a
sollevare i pazzi dal suolo, come fiori spetalati. Non era
luce che si dibatteva tra i cristalli, era la mia volontà
di sopravvivere! e tu gagliardo incoraggiavi con una lesta
manciata di monete incastrate nel mio desiderio dite che
ombreggiavi nell’infinito. Io ero la tua stupidella che rimava
a quattr’occhi nella sua cella di granito solidale agli
affreschi ed affetti degli solitari. Ma tu perdonavi e rincorrevi
l’anniversario della Luna che fra di molti biascicamenti sollevava
il sole dal suo candelabro. Tu non eri la mia chiesa eri
il mio demonio e la notte regina durava da eterno e mi rimaneva
in gola il sapore della tua forzata risata che s’oscurava
al levarsi del levante in una polveriera.

Tramite il riso in gola s’oscurava la mia gioventù. Tu la
risollevavi, silenziosa – nella sua castella delle abitudini.
Dormire forzare il demonio ad accaparrarsi i brandelli della
mia pietà, – dormire in una stanza ricoperta di tela e di
arabeschi potenti come lo zigomo della tua taccia.

(da Variazioni Belliche, 1964, in Le poesie, Garzanti 1997)