Davide Rocco Colacrai, L’ultimo colore delle cose

Risorgete, risorgete,
non più torri, ma steli,
gigli di preghiera*


È un martedì di settembre,
le strade bevute dalla stagione,
il naso a bucare l’aria, quasi a ricercare
quell’odore, d’immenso e liquido amniotico, del dormiveglia accanto,
i pensieri di traverso sul cuore,
l’ansia, e i marciapiedi ad esalare il silenzio del viavai,
gli spazi veloci, quasi inconsistenti, dei passi,
i sogni annodati al nodo della notte,
quella che mi ero ripromesso essere l’ultima sigaretta,
i rumori, e il loro sovrastare la solitudine della città,
il mio sentirmi estraneo
quando sopravvivere è un atto d’amore.
La morte è un madre improvvisa, che cammina scalza, a capo chino,
che risveglia da ogni poro il nostro nome
e la sua storia, ne spoglia il corpo,
ricolma bocche che hanno perso la forma,
zittisce il canto del tempo, annulla quel tic-tac evanescente
che satura anche la pioggia,
inventa chimere d’insonnia, lontane da qui,
e inganna il ricordo, e nega la terra
quando il domani è uno scarabocchio d’attesa.
Parleranno di noi, quando l’alba avrà morso la vendemmia di fiamme,
dopo che il dolore avrà saziato
e l’ultima preghiera raggiunto il poi
parleranno di noi, quando l’azzurro avrà raccolto le nostre membra,
dopo che il sangue avrà lavato il giorno
e le macerie salvato l’ultimo colore delle cose.
Come baci fioriremo dietro l’infinito, tra il vento e la parola,
dove la bellezza non ha fretta.
Era un martedì di settembre, ovvero lentamente e impercettibilmente fu.


* Da 11 settembre di Mario Luzi

(Da Asintoti e altre storie in grammi, Le Mezzelane 2019)

Davide Rocco Colacrai, L’interpretazione di Davide

Scandaglia ogni sepalo di sogno, Davide,
a tamponare la congruenza imprecisa delle ombre del suo carattere
a ciclo d’orizzonte,
stretta nella differenza d’approdo dei punti a stella del corpo
come un preludio,
che prova, in appoggio all’ora liquida dell’amore,
il suo teorema d’uomo.
Lavora ogni spora del destino, Davide,
a valicare il suo essere abbarbicato ai giorni in un’introversione a
calendula
al rimprovero di Dio,
confinata da molliche di terra in un equinozio di profilo
come uno scarabocchio
che, nell’impossibilità ad una primizia di carne,
lecca lo spazio di una conclusione d’uomo nel suo perimetro.
È raccolta in quel minuto di roseto dal seno del silenzio dopo la
neve,
l’interpretazione di Davide,
fragile e certa,
precisa e senza alito,
immensa,
d’incontro dei sogni col destino nell’incavo precario di una sintesi,
di un uomo con l’uomo che è.
In ogni virgola dell’innocenza del suo nome, il capodanno
di genesi e perdita a specchio.
E la parola in fondo all’infinito.

 

(Da Infinitesimalità, VJ Edizioni 2016)