Juan Carlos Mestre, Ciò che so di me

LO QUE SÉ DE MÍ

Yo he nacido aquí junto a las altas lilas del verano
y los verdes racimos amargos de la aurora.

Yo he nacido entre las rosas que han muerto
y el mustio follaje de los jardines de un sueño.

En las transparentes alamedas que canta el ruiseñor
y abre el rocío con su cuchillo de cristal en la mañana.

Como la hoja que cae sobre un sepulcro
yo he pisado al nacer esta piedra y su luz me ha salpicado.

Como el que nace para la música y talla la madera o la roca
y escucha su voz crujir bajo el cincel y no pregunta.

Yo he nacido duro de corazón y equivocado,
pero vosotros me habéis dado la tierna mano de la primavera.

El que sopla las estaciones y hace reverdecer al árbol muerto
ha mirado esta rama joven que no ardía.

Al consumido en su luz y al que el amor destierra
mis días por igual se han parecido.

Como aquel que al entrar en su casa se encuentra con la mar
y goza y es feliz y se queda con ella para siempre.

Yo he nacido aquí antes de que mi corazón se diera cuenta
y una dulce mujer se acercara a mi sombra como madre.

Desde entonces he sido melancólico y triste
porque he contado los astros y la lluvia y la arena.

De lo ajeno he tenido la bondad de la tierra
y de lo mío la nada en su infinita certeza.

He visto a los hombres mirar hacia el cielo
como buscando la vida que junto a ti se les niega.

Y he padecido con el dolor entre todos
y no he cerrado la puerta al florecido en su odio.

Al que marcado con saliva se esconde de los muchos
lo he elegido más cerca de mi corazón que a los otros.

Y he contemplado a los pájaros
resolver en el vuelo el misterio del aire.

Yo he nacido aquí junto a la piedra de Cluny
donde brota el mirto su tallo en la maleza.

Pero no he sido feliz,
mi memoria se ha cansado de llover y esperarte.

Nada pudo la abundante espiga del dolor contra nosotros,
cuanto más me iba, más tu amor me aprisionaba.

Y así he sido claro bajo el sol y también fuente
donde suben a beber desde el fondo del mundo las estatuas.

Y un día, un día como hoy resplandeciente y puro
rozado tal vez por el deseo se acercó a la ventana mi figura.

Y al ver todo transido de pétalo aquel cuerpo
salí como siguiéndola y me perdí en su calle.

Yo te he amado pequeño pueblo entre dos ríos
donde supo mi corazón el don de la palabra y las alondras.

*

CIÒ CHE SO DI ME

Sono nato qui assieme agli alti lilla dell’estate
e ai verdi grappoli amari dell’aurora.

Sono nato tra le rose che sono morte
e il triste fogliame dei giardini di un sogno.

Nei trasparenti arboreti che canta l’usignolo
e apre la rugiada con il suo coltello di cristallo nel mattino.

Come la foglia che cade sopra un sepolcro
al nascere ho pestato questa pietra e la sua luce mi ha cosparso.

Come colui che nasce per la musica e taglia la legna o la roccia
e ascolta la sua voce stridere sotto il cesello e non domanda.

Sono nato duro di cuore ed equivocato,
ma voi mi avete dato la tenera mano della primavera.

Colui che soffia le stagioni e fa rinverdire l’albero morto
ha guardato questo ramo giovane che non ardeva.

Al consumato nella sua luce e a colui che l’amore dissotterra
i miei giorni hanno somigliato uguali.

Come chi entrando nella propria casa s’incontra con il mare
e gode ed è felice e con lui si ferma per sempre.

Sono nato qui prima che il mio cuore si rendesse conto
e una dolce donna si avvicinasse alla mia ombra come madre.

Da allora sono stato melanconico e triste
perché ho contato gli astri e la pioggia e l’arena.

Dell’estraneo ho avuto la bontà della terra
e di mio il nulla nella sua infinita certezza.

Ho visto gli uomini guardare verso il cielo
come cercando la vita che assieme a te si nega.

E ho sofferto con il dolore tra tutti
e non ho chiuso la porta al florido nel suo odio.

A chi marchiato con saliva si nasconde dai molti
l’ho avuto più vicino al mio cuore di tutti gli altri.

E ho contemplato gli uccelli
risolvere nel volo il mistero dell’aria.

Sono nato qui assieme alla pietra di Cluny
dove il fusto del mirto sboccia nel pruneto.

Ma non sono stato felice,
la mia memoria si è stancata di piovere e attenderti.

Nulla poté contro noi l’abbondante spiga del dolore,
più me ne andavo, più il tuo amore mi imprigionava.

E così fui chiaro sotto il sole ed anche fonte
dove salgono a bere dal fondo del mondo le statue.

E un giorno, un giorno come oggi risplendente e puro,
sfiorata forse dal desiderio si avvicinò la mia figura alla finestra.

E al vedere tutto afflitto di petalo quel corpo
uscii come seguendolo e mi persi nella sua strada.

Io ti ho amato piccolo villaggio tra due fiumi
dove il mio cuore apprese il dono della parola e delle allodole.

 

(Da Non importa ormai vivere bensì la vita, a cura di Tomaso Pieragnolo, Arcipelago Itaca 2019)

Tomaso Pieragnolo, Io canto nel tuo nome

Io canto nel tuo nome perché tu
da un luogo lontano tu mi senta richiamare
perché giunga alla tua bocca questa goccia
e una sete pendente
ci racconti il vecchio mondo, la terra
già perduta nell’essenza ma sempre solvente
inalterata perfezione. Come i versi
necessari degli uccelli, degli alberi mistici
imbevuti di foschie, con un atto
della mano sulla fronte magari potrà
provocando un sorriso con lusinghe agghindarla,
quando è tempo di partire
con parole abbracciarla, ricordando
coniugato sul suo viso come sarà
sotto i suoi piedi un cammino, le sue mani
che maneggiano fiorami e sopra le vette
una parvenza di silenzio; ragazza
che un enigma vai tessendo con nembi
d’inchiostro sotto il dono di stagioni, che non sai
mai terminare né iniziare, né forse sommare
al tuo continuo cambiamento, confida
nella vita in ciò che sogni e certo un mattino
così vicino, tratteggiando il tuo profilo
mentre dormi lei ti ammalierà
per una volta ed una ancora, e tu
dal passato saprai sorriderle.

 

(Da Viaggio incolume, Passigli Editore 2017)

Tomaso Pieragnolo, Viaggio Incolume (estratto)

[…]

Lei solleva la sua mano e gli sussurra «io
ti aiuterò in questo scricchiolio di ponte
in cui ogni passo è incerto ed ogni cielo
è come un alterno di stoltezza e di clamore»;
perché da questa notte così buona lei
ha imparato contro il male a bestemmiare,
a insegnargli ad occhi chiusi a immaginare
le poche nevralgiche illusioni come nuove,
contando nel suo sonno tutti i sogni che in corto
frangente si erigevano a fortezza; con il miele
che conosce avrà condotto lontano
le fervide utopie di storie appese
dentro al vento come abiti a seccare, o dentro
l’autunno come ali per volare, nel risveglio
solo ali per amare o per inazzurrarsi
pur restando sempre soli, altere
per raggiungere i suoi baci pertanto
disabili nei sogni che ha guardato
concedersi alla vita che ci è data. Non sarà
questo suo corpo che comprende l’avara
invenzione che ostinata ci scolora, ma
uno sguardo che accecato tutto vede e tutto
scorda eccetto ciò che è sconosciuto, che divina
tutto ciò che ha preservato per questo
presente claudicante nel suo ufficio
di morire e poi rivivere ogni giorno.

 

(Da Viaggio incolume, Passigli Editore 2017)