Sofia è distesa, a smaltire l’alcool, e ride – di nulla.
Irene le sta sopra, nella luce lunare che penetra
dalla finestra d’angolo, e traccia i contorni con le dita.
Poi le dita tra le gambe, risalire al centro, fino al punto
dove Sofia non si riconosce più. Non si sottrae
(non ci si può sottrarre alla propria assenza): si lascia
scivolare dolcemente allo svanire.
Passano le ore (esercizio di sovranità) fino all’alba:
alta sulla notte, di luce scabra.
Ed affiora un decadimento che dà orrore,
pare promanare dalle cose stesse:
la spazzola blu sul comodino
le pareti gialle
il pavimento di ceramica bianca:
Irene riconosce quell’orrore,
lo osserva con lucidità,
se ne tiene a distanza.
Nella distanza ricade anche Sofia.
Fuori dalla vertigine, Irene torna: a farmi posto
nel suo riso di infantile crudeltà,
nella sua carne eccedente
di smisurato amore (a propria insaputa).
Vieni, dice Irene. E al suo tornare
io torno a sognare di strapparmi a me,
torno con lentezza, il baricentro all’indietro,
in un gesto estremo di repulsione: ma torno
(sopra di me il suo corpo nudo).
La fisso negli occhi, ride, si leva con sveltezza,
prende i miei vestiti dalla sedia. Resta, dice, e torna su di me:
mi prende come bambola, mi veste. La maglia, adesso.
Vedi, non hai anima, mi dice, sono io la tua, adesso.
Mi lecca i seni, li bacia, mi succhia i capezzoli,
li strofina tra la punta delle labbra. Io gemo (come un lamento).
Irene mi abbassa la maglia, mi allaccia i pantaloni.
Andiamo, dice. Sono investito da uno spossessamento:
e si direbbe che io sia felice, adesso.
Adesso Sofia – da quando, non so – è un corpo nudo:
un corpo celeste, certo, ché non cesserà mai di esserlo –
ma un corpo che pulsa in un altro universo.
Forse mi sono liberato dall’incantesimo. O forse è un’illusione:
ché sento la paura, a pensare di incontrarla ancora.
Bevo, con Irene. Per soffocare del tutto, o per aprire i polmoni.
O forse non credo più a nulla, mi sono arreso al sole
dove non accadrà più nulla di nuovo,
bevo a far poltiglia delle mie parole.
Guardo Irene senza più l’imperio nello sguardo.
Mi tolgo gli occhiali, ed è come se volessi bere anche le parole
che sta per dirmi. Ma sono io a parlare. Sposami, dico.
Rido. E pure, nel fondo, sono serio: la mia ingiunzione
è troppo avida di vita. Un matrimonio senza prete o senza sindaco,
dico.
Al mio paese, dentro a una cava. Tu vestirai di pelle nera lucida.
Le do da bere. Il viatico a miglior vita. Bevo ancora una volta,
Irene mi guarda la mano che tiene il bicchiere, magra e solcata dalle
vene,
come avesse in corpo troppo sangue, e il sangue
volesse uscire. Discosto lo sguardo.
Sai come si chiama in portoghese la mantide religiosa? dico.
Louva-a-deus. Loda-dio.
Bestemmio. Una sfilza di bestemmie sottovoce.
Mi tocco tra le gambe, il sesso gonfio.
(Da Cirque, Arcipelago Itaca Edizioni 2018)