Gustavo Adolfo Chaves, Tuttavia qui è il Sud

Tuttavia, qui è il Sud. Le vie
iniettate di indigenti,
l’architettura contorta
di una stazione di treno dismessa,
i passi fassi dei bambini poveri
e certa sporcizia ferma nelle unghie.Qui è il Sud e non perché sia miserabile;
non è il Sud perché i cani abbaiano
per paura, più che per abitudine.
Qualche punto in una mappa può essere il Sud
sempre e quando tiene frecce che segnalano
verso fuori.

(Da La nuova poesia dell’America latina, traduzione di Loretto Rafanelli, Algra Editore 2015)

Carlo Bordini, I becchini (IV)

Con che autoritarismo portano via le nostre debolezze e i nostri sogni,
con gesti pratici, ragionevoli a scatti
con nuvole plumbee che si gonfiano verso l’avvenire,
con che autoritarismo ragionevole ci staccano dal dolore,
come sono perversi con questa smania da netturbini,
fretta di tutto pulire e sistemare
fretta da impiegati o da soldati
come se le nostre carni e le nostre speranze fossero da buttare

(Da Mangiare, Empiria 1995)

Antonio Bux, Vorrei che le mie poesie

* (Vorrei che le mie poesie
le leggessero i muratori
dopo la Peroni e il tangone

vivo di mortazza tra un rutto
e uno schioppo di Diana Rossa
magari sospeso su una trave

con la pancia spudorata
un muratore a bestia leggerebbe
una mia poesia senza cielo)

Ad un certo punto della tua vita
hai scritto poesie per tenere

promessa a quel vecchio
scrutatore di un altro futuro

e ora non c’è via di fuga
scrivi poesie per tornare in te

stesso o nella tua vera colpa
anche se scrivere non è fare

ma diluire il nero procedimento

sarà stato marginale resistere
se l’esistenza è danno scrivendo

 

(Da Gabbie in codice, Oèdipus Edizioni 2017)

Sonia Lambertini, Per sottrazione mi ripeto

Per sottrazione, mi ripeto.
Due passi in avanti
conto fino a tre
mi guardo alle spalle
e vedo che non sono
mai arrivata più in là del sei.
Il chiodo fisso di controllare le cose
con la matematica, un movimento:
meno anni, meno possibilità
meno tempo e luce
e poche parole
corte, le preferisco.
Il segno meno è una linea orizzontale
una lama sul collo,
un peso insopportabile.

(Da Danzeranno gli insetti, Marco Saya Edizioni, Milano, 2016)

Guido Turco, La tendenza a scrivere pesante

La tendenza a scrivere pesante deve essere parente della pratica con cui mangiamo.
Mangiamo troppo e troppo in fretta, non digeriamo niente e abbiamo soltanto voglia di chiudere gli occhi.
L’evoluzione linguistica da pisolino a pennicchella a mindfullness non l’ha ancora studiata nessuno.
Attaccati a diversi alberi si trovano gli annunci per ritrovare cani e gatti. Niente da fare per mogli e mariti. Ancora non c’è l’usanza, che è anche una forma di pubblicità. Far sapere che avevi un cane, un marito, un pappagallo d’Amazzonia che è volato via.
Il cielo resiste molto in alto nella classifica delle cose più guardate e meno capite. Ma è sempre qualcosa accorgersi di un aereoplano, rendersi conto che basterebbe dargli uno schiaffo per farlo cadere. Stavo con il naso all’insù quando è arrivato il postino, carico di pioggia, ma non sembrava importasse granché. La penna per la firma sulla raccomandata gli scivolava, « come una trota » ha detto.
L’ultimo bestseller che ho comprato è una storia dell’umanità, qualcosa scritto per far concorrenza alla Torah. Si scopre che non siamo poi tutto quel ben di Dio.
Mia moglie si concentra sui libri di ricette, dice che c’è un disegno dentro, che il senso delle cose sta nascosto e una volta fatto poi scompare rapidamente.
Non riesco a darle torto, le ho solo consigliato di andarci piano.
Poi ha ripreso a piovere. Gli ombrelli se ne perdevano un sacco, la poesia più stanca raccontava quasi sempre in treno.
Ora non ne ho mai a portata di mano. Tutti persi, i magazzini delle ferrovie stracolmi di parapioggia chiusi.

 

(Da Un’ultima cosa prima di partire, silloge inedita)

Michele Joshua Maggini, Esodo (Proemio)

Proemio I

«Ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me»
Esodo, 13

L’Esodo è stato questo andare d’onda
da un nome all’altro, fino al punto estremo
in cui non si poteva nominare, fino al punto
estremo del volto, dove il nome si perde.
Le onde vanno e non ritornano flutti,
non si fanno sinonimi, e la marea umana
squassa contro i confini come a divorarli.
Siamo una stagione
del mondo.
Vieni
a vedere l’avanzata del mare,
un assedio di cui si è perso
l’inizio e perciò ci somiglia.
In questa fine, nel canto del coro, tu
sei la parola: la voce del sangue
nel sangue che piega il mio di
mondo almeno e solo perdere perché si possano
rifare palmo a palmo babeli di bestemmie
tragedie che vite insinui.
Tu pure c’eri e ti rivedo
che eri goccia nella pioggia e battevi
alla mia finestra come ad entrare
ed annegare tutto compreso me,
annegare i palmi di riva strappati ai morsi
delle grida, e anche il tempo è sentimento e divora
l’attesa, che custodisce ogni azione.
In questa storia che avanza
non si attende chi ricerca per quell’equilibrio
dove posare un sole, nemmeno le stelle che non
L’Esodo è stato questo, questo nostro andare
a capo un istante prima della vittoria, e perdere
per tentare ancora, per una fine più perfetta.
(Si scopre qualcosa di sempre antico tanto da non
chiedere più chi siamo alla prima risacca d’uomini
che arranca sui marciapiedi).
Nel cuore della paura
un battito da ascoltare d’una razza
che certo la verità cerca
e perisce nell’immenso,
nell’immenso la verità percepisce.
Ma ciò non m’appartiene:
amare è paura d’avere.
sono in moto per amore umano alcuno.
Fu uomo chi agli dèi voce diede
e noi si reca il tempo dove si vede:
sabbia nel cemento, nelle clessidre, nelle vene,
nei fiori che senza dio irrompono dai fori e
sono il gesto della madre che pane
nella bocca mi forza e il padre
è la bestemmia che serra i denti
fino a spaccarli.
Insegnano
che c’è una paura che salva che salva
noi immolati alla vita che mai si chiese,
ma venne come vengono le stagioni.
Ed è nostro il dolore che s’imparò giocando
a strappare alle lucertole le code.
«Così aprimmo la porta che dava sul giardino
delle rose, la porta che nascondeva la memoria,
la voce che attraverso i secoli rimane e ci parla.
Ti dissi di no, di non farlo, poi la luce divise i
confini delle cose, le sillabe e la pietra che
divenne solo pietra, non fronte, né acqua, né
amore, il mare solo mare, non paura, né storia.
Divise noi e ora che esisti e sei fuori di me,
narrami mentre ricominciamo e non pensare,
non puoi pensare altrimenti prende vita e si
forma e il logos accade prima che tu scandisca
le labbra dal silenzio ad un bacio e non c’è
andare avanti, ma solo ricominciare dal punto
estremo del volto». E lei rimase assorta e già un
mondo si componeva negli occhi suoi, negli
occhi suoi si instaurava. E solo versi rimangono
spezzati sulla spina e una voce che attraverso i
secoli torna e rimane e ci parla e dimentica la
fine, che è da rifare.
«Narrami, narrami tutto dalla fine»

 

(Da Esodo, ‘round midnight Edizioni 2017)

Vito Panico, Vieni a trovarmi qualche volta

Mi dicono che sei andata via
e hai una carriera,
che tieni bene il terreno se circondata alle feste.
Devi essere auto-consapevole ora,
mi chiedo quanto sangue ti ci è voluto
quanto calmo amor proprio
quanto guardare gli altri più lucidamente
che in uno specchio.

Sono preoccupato
che le macchine ci stuprino tutti
potrebbero colonizzare il brullo Connemara
abbiamo già avuto un lungo inverno
e nessuno qui desidera un assedio.
Vedi, le macchine si pensano superiori
geograficamente elette
amanti migliori
ci vieteranno l’ingresso al regno
dopo diranno che siamo diversi
maschere bianche su facce nere
noi negheremo, ma lo siamo,
eccome.

L’inverno porta con sé un morboso sonno
le rughe sono solchi di rancore,
molti passi consecutivi,
molte frasi che diciamo,
mediamente argute.
Alla finestra un metabolismo lento
di querce e rinunce.

Il villaggio al momento è isolato
il fango ha occupato le vie da sud,
dunque vieni da est, dalla parte dei monti.
Se scegli l’autobus
scendi al terzo ulivo, il secondo è guasto.
Da lì segui il sentiero della riconoscenza,
all’angolo troverai un dolmen, bacialo,
se ridi, sarai già un passo avanti.
Attualmente aspetto l’ulivo 44,
mi porterà alla stazione ‘amici fidati’.
Se la mappa è giusta, entro stasera,
anch’io avrò trovato una cheerleader.

 

(Inedito)

Tiziano Scarpa, Non avere avuto figli

(Da Le nuvole e i soldi, Einaudi 2018)

Giulio Maffii, I morti stanno rinchiusi di giorno

I morti stanno rinchiusi di giorno
la notte mangiano frutta
Salivamo all’ultimo piano
e ti chiedevo
cosa incantava la vista o la vita sui tetti
Erano sintomi mi spiegasti
non Yadruvava
il sole non mi avrebbe rapito
e trasformato in uccello
tornai spazio dentro
lasciando un po’ di tempo
gocciolare sul granito delle scale
Il condominio grondava silenzio
e noia e radioline e stanze
ipocattocrisia e voci
la domenica pomeriggio
quando anche dio
chiude il portone

 

(Da Misinabì, Marco Saya Editore 2014)

Andrea Leonessa, Tassidermia verbale

Non avendo che un tempo di curarsi, della bocca
aperta si fece spazio ad estrazione, a cassetto, vano
per Lego, d’un costrutto verbale la sede annacquata,
l’asporto delle braccia che non stanno all’incastro
del dire lo spazio, la fessura occupata dalla dicenza
d’un bosco aspirato e farcito, dopo, da muscolature,
tessuto cartilagineo a colmare lo strappo, la distanza
che corre tra le betulle, eccetto delle pozze piovane
la sommersione prevista parziale: un discorso a parte
dove si va a periodi, se non occorre la calza asciutta
al processo d’imbalsamazione, se fa buona presenza
ugualmente, attraverso l’arco a cui s’accede al testo
quando condensa di traverso, facendo leva sull’epoca
per accorpare un secolo nelle due (i)stanze multiple
di due, aventi un mancamento sul tetto delle palazzine
nella manovra di avvicinamento, mettendosi in bocca
parole, come si dice, quando un tempo non permette,
attraverso un rovescio, la precipitazione sulla terra
nello stesso decennio, ed occorre cadersi manualmente
tra le braccia, estraendo un verbo declinato dal cavo
orale per grondare un temporale, fonema per fonema

(Inedito)