Enzo Campi, alzare le mani per lasciar cadere

[…]

alzare le mani per lasciar cadere
il maltolto e presentare la resa.
come se la sua funzione fosse solo
quella di amplificare l’irrisolto per
toccarsi e farsi toccare. come se fosse
fatto di vera carne e non di grumi
forclusi. quindi mangiato o solo
masticato e poi sputato. non bisogna
leggervi una morale. certo, lo dice e
lo scrive ma è evidente: il punto non
risponde ai comandi. tira dritto e per
fortuna non trova la strada maestra.
come se la sua funzione fosse

[…]

(Da Fuochi Fatui, Oèdipus Edizioni 2021)

Enzo Campi, Ciò che sopravvive all’apocalisse

“Ciò che sopravvive all’apocalisse
è il relitto che anticipa l’avvento morendosi”

Se pure scandita per lessemi
impronunciabili rinviene chiara
al lobo la sentenza che il coro
dissemina, da giorni, nell’intero
intorno: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi

Per questo il viandante può approdare
solo naufragando e rivendicando
l’ascesa, la caduta, la sospensione
e gli affabulanti fraseggi in cui
montare e smontare la serie dei
feticci. Ecco, questo è l’aspetto
trascendentale del sacrificio.
E tutto si pone in attesa,
come se lo stallo fosse l’unico
escamotage capace di lenire il peso.
Certo, il coro aiuta non poco,
lavora di fino con ago e ditale
e replica, puntuale, colpo
su colpo, vanificando le schegge
che tentano di travalicare
il rituale in cui annullarsi. Così,
tanto per recitare di getto la sterilità
del dato di fatto, che non si fa,
non si disfa mai da solo, ma rinnova
l’insipienza che regola il gesto coatto
di rendersi allo speco. E ad ogni passo
in avanti il viandante si volta indietro per
sbeffeggiare il passo che l’ha preceduto.
Così, non curandosi di ciò gli si para
dinanzi, inciampa nel sasso e imprime,
nel limo, lo stampo del suo corpo, poco
affine a qualsiasi declinazione temporale.
Questo è il verbo del tempo, una cosa
tra le cose, ripete fino allo sfinimento
il coro, e in un solo istante tutto diventa
labile e si forgia nell’evanescenza
di un soffio impossibilitato ad agire
e reagire. Così, a mezza via tra l’algida
febbre e lo spasmo contratto, quel viandante,
troppo umano per essere reale, si sovrappone
al simulacro, si sistema nella gabbia
e si pone all’ascolto di quell’irritante
brusio che recita la litania del passaggio.
Non disdegna il salto sul posto, ma non si
sposta neanche di un centimetro. E pure
s’interra, ogni volta di più, innervandosi
nello spasmo, come se la sua sola ed unica
preoccupazione fosse quella di sprofondare,
di stabilire un regime di prossimità con
quelle radici più volte ripudiate, non per
libera scelta, ma solo per quella tacita e
pacifica consuetudine che non può ridursi
alla mera ripetizione di ciò che può essere
verificato nel breve volgere di un battito
di ciglia. E anche il coro, in segno di lutto,
non può far altro che recitare il mea culpa
e osservare un minuto di religioso silenzio

Se pure sussurrata per oscure
glossolalie risuona chiara
al lobo la profezia che il coro
incide, da sempre, levando
lo scalpello: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi

Per questo, forse, il viandante muore
solo scrivendosi. Del resto c’è
un solo humus da riplasmare, ma
sono infiniti i lapsus da perpetuare.

 

(Inedito)

Enzo Campi, non ho una cosa

non ho una cosa, io, e non abbiamo
più cose, noi, né voi, né sul fronte,
né sul retro, ma una sola pagina, io,
e più pagine, noi, e voi, solo aperte,
certo, ma anche chiuse, serrate a
doppia mandata, eppure esposte,
nelle superfici, o incorniciate da
margini invisibili, sempre presenti,
o presentati come una sola cosa da
difendere, o più cose da mortificare,
senza che ci sia una cosa per cui valga
la pena arroccarsi, o sulla quale infierire,
io, e noi, e voi, tutti in fila sulla linea
immaginaria che taglia il centro,
o debordati, in ordine sparso, dal centro
verso l’esterno, ma il centro non c’è,
e l’esterno non è adatto a contenerci,
non può incidere sulle nostre mani la
croce della disfatta, non ho una cosa,
io, e non abbiamo più cose, noi, né voi,
senza dire l’altro sul fronte, senza dire
altro che non sia stato già detto sul retro,
senza dire altro che non sia già stato
fissato o solo sospeso nell’intercapedine
tra la verità e la menzogna, nello spazio
neutro e neutralizzato da secoli di
palesi inutilità, senza notare la presenza
che ci sfugge, che non vuole approssimarsi
a me, a noi, a voi, per questo la pagina
resta vuota, seppur piena di cose che
cose non sono, per questo la pagina si
mostra vuota, si manca nel contatto
tra me e voi, nel contatto che non c’è,
che non c’è mai stato, se non nella
sublime distanza che ci abita, nella
distanza incapace di costruire una
dimora in cui far naufragare l’approdo,
e non ci sono, io, né voi, e non c’è
nemmeno la pagina, osservate con
attenzione, è vuota, contiene solo
le crepe, le cicatrici che coprono
il danno ma preservano il dolo, eppure
resiste l’idea di una reversibilità tra un
fronte e un retro, tra il fronte dove
erigere una barricata e il retro dove
celebrare la resa, e io, e noi, e voi,
tutti in fila, stremati, sezionati di netto
nel centro, abbattuti all’interno,
violati all’esterno, senza una
scrittura, io, senza una forma, noi,
senza uno stile, voi, eppure insiste
quella malsana reversibilità di un
fronte/retro votato alla sua assenza
di fondo, nel fondo, attraversando
il fondo, dove nessuno allunga il passo,
dove nessuno affonda la stoccata,
dove la cosa si consegna alle cose,
ma non ci sono cose qui, né altrove,
non nel disegno superiore, appena
accennato, di un’idea da difendere,
e anche i segni sono cose, facezie
da artigiani sopraffini che non sanno
cosa è cosa, cosa non è cosa, cosa sputa
il centro e cosa trattengono i margini

 

(Da un progetto abortito, inedito)

Enzo Campi, Solo un graffio

solo un
graffio
uno di
più uno di
troppo ma
sempre mancante in
ricordo del
gesto tribale l’
offerta il
rito la
messa la
resa le
mani disgiunte a
nascondere il
segno per
omettere il
referto la
sintesi del
gene violato
alieno sì ma
domato con
frusta di cuoio e
canna d’
acciaio ancora un
graffio un
graffito sul
derma che
rendersi può
solo al
chiodo e ai
suoi figli
degeneri un
graffio lo
smacco il
graffito lo
scarto magari un
bassorilievo e il
ritorno del
cuneo a
scalfire il
fusto scolpire il
segno sull’
idolo destituito sul
feticcio mercificato
come cosa in
cui pasteggiare
sulla scorta di
uno scatto che
avanza solo
ritraendosi ecco
questa è la
storia che
nessuno recita a
memoria il
simulacro come
traccia del
dolo che
accompagna il
gesto l’
effrazione il
furto originario la
questione della
fonte l’
amnio l’
acqua-madre l’
umore da
disseminare la
scissione tra il
peso della
separazione e il
pensiero della
rivelazione un
graffio ancora
uno se mai
abortito nella
serie dei
graffiti lo
scacco che
proviene dall’
interno il
cilindro che
recita da
millenni la
stessa supplica il
coro che
scansiona l’
implacabile
dettato il
peccato sorgivo
che precipita dall’
ellisse ovalica dal
ricettacolo che
custodisce le
impronte le
orme i
segni da
ricordare da
dimenticare

(Dal poema Sequenze per cunei e cilindri, 2014/2015, inedito)

Enzo Campi, Phénoménologie

etc
et
e

la progressione in calando aiuta non poco.
ma noi sappiamo che non ci si può imbastardire
praticando la logica formale.

l’unica procedura di risoluzione è un
anello
potenzialmente neutro.

 

(Da Phénoménologie, stampa in proprio a cura del Comitato promotore di Bologna in Lettere 2015)

Enzo Campi, précipité

Nella bile che inonda
l’esofago e rinviene
al palato ristagna
un gloglottio
impastato e retroflesso
votato al riflusso
e alla mancanza
in cui immolare
il discernimento

Vi si cerca
il precipitato
vi si vede
la scia rilucente
nell’andirivieni
degli atomi fluidi
che conferiscono
un nome
al flusso amniotico
imperlato di seme

Ancora un lessema
lezioso tettema
d’artaudiana memoria
per vanificare
l’oblunga pioggia
degli avverbi
sventrati
in un niente di fatto
che s’insinua d’intorno
e solo ammicca
la ricca scorpacciata
in cui ammonire
l’amica lingua
al mai più leccare

Vi si imprime
il segno
di una guaina
famelica
di una viscida
faina
che tutto raccoglie
e sistema
nel suo ricettacolo
Vi si staglia
l’ombra
che invade
la soglia
e scava
nella chora
per arrivare
alla faglia
ove disegnare
la crepa
e innescare
l’oscillazione

Ancora un’isotopia
a inghirlandare
l’incoercibile
placenta sintattica
che a tutti piace
ma non induce
il godimento
se non nelle sillabe
laccate
che si rendono
legnose
per meglio colpire
l’idea di un simulacro
che sempre
avanza
e si fa strada
nel limbo
ove ci si attende
alla fuoriuscita
del pronome impersonale

Vi si impianta
l’idea
che questa
non sia poesia
semplice semplice
così inscritta
e vociata
in claudicanti
dettati
che si aprono
dalla loro sorgività
verso il magnifico velo
attraverso il quale
s’intravede
lo zoppicare
di quell’Edipo
escluso
dalla sua famiglia
invaginante
e condannato
a disseminare
il suo occhio cieco
sulla terra gravida
di spietati oracoli

© Enzo Campi, 2006

  

 

Enzo Campi, Di un’idea di vita e altre filosofie

Di un’idea di vita e altre filosofie

navigai, in punta di piedi e per un attimo lungo come un sogno, tra la stella
che riluce solo se è sollecitata da un’idea e la stalla in cui la paglia non più
ripara da quel siberico filosofare che mette in dubbio il peso dell’ordine e il
grado della misura; al mio fianco incombe l’elegia di un vaso e l’ombra di
un vasaio, le cui mani, intinte nell’argilla, danno viso, corpo e lineamenti,
all’informe massa elementare che fluttua nel buco nero del firmamento e
dirige, per presunta saccenza aristotelica, la tripartizione in cui sfinire l’idea
della privazione; c’è anche l’asino, mi si creda, scalpitante in passo lento,
che catapulta il disincanto tolomeico come progressione aritmetica d’ogni
possibile divenire nel piatto assioma di un ordine precostituito, per cui la
sostanza, almeno così dicono in tanti, è una, unica e di sicuro indiscussa,
ma mi si conceda un tuffo in quel brodo primordiale e già macilento, ove,
incanti a parte, mi sovviene il rimando ad un’impossibile eresia, cercate di
capire, il gioco si fa altro e duro; nell’antro che si vorrebbe chiuso nel primo
pronome personale, magari per carenza d’aggettivi e mancanza di figure
arabescanti, c’è come un divieto d’accesso rivolto a tutti coloro che, come me,
cercano, per l’appunto, di deflorare, in un solo colpo e in solo giorno, la
verginità delle nuvole a mezzogiorno e l’ombelico dei limbi a mezzanotte,
laddove, mi s’intenda, il limbo è quel luogo sospeso ove fluttua il decorso
della ragione e l’ombelico, mi sembra ovvio, è la porta che si apre su quel
cunicolo, intriso di malia, ove il diaframma si nutre della linfa del midollo,
per cui, mi si permetta ancora di reiterare, in lungo e in largo, l’idea malsana
di questo lungo viaggio che pretende di dare il tu all’infinito, che vorrebbe
un maestrale a gonfiare le proprie vele; questo dire, in verità, sfibra e stanca,
perché mette in discussione la tranquillità di chi si sente rassicurato dall’altrui
eletione, e vedo già il pipistrello che, volando in cecità, si frange contro
l’albero e si offre in pasto all’avvoltoio, per cui sono costretto ad invocare
il ritorno di Sofia, cerchiamo d’esser chiari : è già da tempo, oramai, che non
tesse più quel Filo che riconduce Sofo alla luce del sole; non mi stancherò mai
di dirlo, la luce è causa primigenia, generazione di un’idea che non si esaurisce
nel tepore e si fionda, come sasso scagliato dallo sdegno dell’incomprensione,
nel senno, malato e roso dall’invidia, d’ogni deleteria inquisizione; pensate
alla materia che dal ventre di una donna si dipana in tenui respiri di silenzio e
ingordigie di placenta, pensate alla nuova vita che si plasma, poco a poco,
senza ingiuria e senza inganno, questa donna non è forse paragonabile all’arte
del vasaio di cui prima ho decantato il tocco? pensate a quel filosofo come
artefice d’un aspra ligatura indispensabile ad ogni possibile discernimento
della teoria del disegno universale, pensate all’amore per l’amore, pensate alla
linea dell’orizzonte, oltre la quale l’ignoto, finalmente disvelato, diviene noto
pensate questo,
pensate altro,
pensate oltre

(dedicata a Giordano Bruno)