Proemio I
«Ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me»
Esodo, 13
L’Esodo è stato questo andare d’onda
da un nome all’altro, fino al punto estremo
in cui non si poteva nominare, fino al punto
estremo del volto, dove il nome si perde.
Le onde vanno e non ritornano flutti,
non si fanno sinonimi, e la marea umana
squassa contro i confini come a divorarli.
Siamo una stagione
del mondo.
Vieni
a vedere l’avanzata del mare,
un assedio di cui si è perso
l’inizio e perciò ci somiglia.
In questa fine, nel canto del coro, tu
sei la parola: la voce del sangue
nel sangue che piega il mio di
mondo almeno e solo perdere perché si possano
rifare palmo a palmo babeli di bestemmie
tragedie che vite insinui.
Tu pure c’eri e ti rivedo
che eri goccia nella pioggia e battevi
alla mia finestra come ad entrare
ed annegare tutto compreso me,
annegare i palmi di riva strappati ai morsi
delle grida, e anche il tempo è sentimento e divora
l’attesa, che custodisce ogni azione.
In questa storia che avanza
non si attende chi ricerca per quell’equilibrio
dove posare un sole, nemmeno le stelle che non
L’Esodo è stato questo, questo nostro andare
a capo un istante prima della vittoria, e perdere
per tentare ancora, per una fine più perfetta.
(Si scopre qualcosa di sempre antico tanto da non
chiedere più chi siamo alla prima risacca d’uomini
che arranca sui marciapiedi).
Nel cuore della paura
un battito da ascoltare d’una razza
che certo la verità cerca
e perisce nell’immenso,
nell’immenso la verità percepisce.
Ma ciò non m’appartiene:
amare è paura d’avere.
sono in moto per amore umano alcuno.
Fu uomo chi agli dèi voce diede
e noi si reca il tempo dove si vede:
sabbia nel cemento, nelle clessidre, nelle vene,
nei fiori che senza dio irrompono dai fori e
sono il gesto della madre che pane
nella bocca mi forza e il padre
è la bestemmia che serra i denti
fino a spaccarli.
Insegnano
che c’è una paura che salva che salva
noi immolati alla vita che mai si chiese,
ma venne come vengono le stagioni.
Ed è nostro il dolore che s’imparò giocando
a strappare alle lucertole le code.
«Così aprimmo la porta che dava sul giardino
delle rose, la porta che nascondeva la memoria,
la voce che attraverso i secoli rimane e ci parla.
Ti dissi di no, di non farlo, poi la luce divise i
confini delle cose, le sillabe e la pietra che
divenne solo pietra, non fronte, né acqua, né
amore, il mare solo mare, non paura, né storia.
Divise noi e ora che esisti e sei fuori di me,
narrami mentre ricominciamo e non pensare,
non puoi pensare altrimenti prende vita e si
forma e il logos accade prima che tu scandisca
le labbra dal silenzio ad un bacio e non c’è
andare avanti, ma solo ricominciare dal punto
estremo del volto». E lei rimase assorta e già un
mondo si componeva negli occhi suoi, negli
occhi suoi si instaurava. E solo versi rimangono
spezzati sulla spina e una voce che attraverso i
secoli torna e rimane e ci parla e dimentica la
fine, che è da rifare.
«Narrami, narrami tutto dalla fine»
(Da Esodo, ‘round midnight Edizioni 2017)