Marthia Carrozzo, Envoi dell’acqua che sa (o del faro di sé)

Per quella forza che fa faro anche distanti,
non mi perdo.
Per quella luce che davvero riconosco al corpo tuo,
tu qui mi vinci.
Per la saggezza trasparente della pelle,
seguo il sangue.
Per quell’amare delle membra che mi sfianca,
mi appartengo.

(Da Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima), Kurumuny Edizioni 2022)

Marthia Carrozzo, Del Palmo della Mano (La Papessa)

Strappo di troppi abbracci e troppe voci
di tronchi cavi di ferite e stelle.
Di polvere di schianti tra le dita,
a trattenere ancora, oltreora il segno.
Pagina vuota il ventre, largo largo,
il pentagramma ferroacceso di violini
e il rovistare fitto fitto che è di gatto,
vibrisse ocra le pupille vive spente,
cave di tuttoancoradavenire

Naufraghe rovesciate, prone al suolo,
ospitano radici nelle membra,
slabbrano il mare, riempiono oltre l’orlo.
Gusto di vecchionuovo a computare il seme.

(Da Apprendistato al gioco delle mani, 2008/2009)

Marthia Carrozzo, Pentesilea

Regina delle amazzoni, vestirà armi ed elmo da guerriero, con una mammella costretta dalla nascita all’atrofia e compressa sotto il peso di una fascia d’oro ad agevolare il trasporto della faretra e dare più forza al braccio di tendere l’arco. Schieratasi al fianco dei troiani, incontrerà un Achille ignaro della sua identità. Tra i due, però, riscrivendo la versione che del mito riprende von Kleist, sarà lei, ad uscire vittoriosa dallo scontro, nel duello più  temuto e irrinunciabile.

attraverso Pentesilea  (o della resa che umana e che svela)
Non è più nessuna geografia.
Non è e non sa.
Non sa di terra, se lo lecco nel palmo,
non sa la terra, la geometria sghemba delle mie
linee che nessuna zingara riuscì mai a computare.
Nemmeno quella volta
che le mie cagne le fiutarono la gonna,
ringhiandole in cerchio a tenermela lontana.
Nemmeno quella in cui mi disse che l’avrei incontrato.
Non lui, certo. Non allora.
Eppure, già da allora, sin da allora, certo.
E ora.
Non è più nessuna geografia.
Non è e non sa.
Non sa la mappa che apre la rotta
tra le mie pleure e il cuore,
come fossero stati per ore in apnea e affiorassero ora
a ingorgarmi la gola.
Non è più la geometria sbavata delle mie labbra
così ebbre di lui solo un attimo prima.
Non è più la breccia, il varco, il trampolino,
il cavo teso su cui osavo i passi.
Non è e non sa. Eppure.
Eppure sono io più certa. Più che pura.
E sporca del suo sangue e già per questo.
Come un frutto guasto, liberato della buccia,
la polpa molliccia, spremuta, espressa
nelle espressioni urlate del mio viso
fatte distorte da un piacere così forte
da non poterlo più celare.
Che mi torcevo le mani minute, puntute,
conficcando le falangi all’approdo dei suoi fianchi,
senza temere la mia nudità,
se mi teneva e mi tenevo a lui,
nell’assedio assetato delle nostre pelvi inesperte,
ansiose di fiorire.
E ci colammo addosso, addossati alla parete,
lui, Ierofante, di fronte,
a sgranare l’agguato,
a sferrare in più salmi ansimanti il battesimo fiero
ai miei seni votati, vuotati,
alle derive della mia monca maternità,
dove pesava la faretra di traverso.
Strapparmi il verso. Ultimo. Essenziale.
Quasi un vagito, a fare tremule le anche.
E ci cademmo addosso, entrambi retti alla parete,
tessendo trame inaudite di gemiti e zucchero cotto
che candisce al tatto.
Ci spingemmo l’un l’altra sul limite esatto
di un salto slargato che presto lumeggia,
diaframma slentato
da un’eco frammista di fremiti e fama e visioni.
Quell’ultimo verso che albeggia.
Che eravamo divisi, in un tempo, e distanti,
tanto quanto è feroce, nell’ora, la fame
e ferina di assalti e tranelli, ai suoi fianchi,
al costato, cui ora mi accosto in un tango
di lingua e di denti sonanti a segnarlo,
assegnare il mio nome al suo sterno
e saperlo, sapere il sapore nemico
che stride e stordisce,
che mi volta, mai vile, mi tende riversa,
che si versa, alle coste di reni spiazzate
e spezzate a ridurmi polena al mio stesso salpare.
Lui nemico, né amico più caro del cardio che porta,
che più stretto, implorava le dita di batterlo ancora
e percuoterlo al ritmo ossessivo del fiato da sotto,
che chiedeva a gran voce la luce. Tornarci.
E un latrato, fu il solo accadere che orecchio ricordi,
l’indecenza lavata tra lacrime e umori imperlati,
che saliva di freddo alla fronte, trovandomi inetta
a quel taglio di netto e di giorno, che netta le ombre
e le pose concesse, gli incastri perfetti,
come in guerra e in amore soltanto.
Fatto il netto tra i muscoli laceri, sfatti
e i suoi tendini spinti a cercarmi più vera,
a lasciare le orme pregresse al tallone
che tollera ancora l’invidia di chi non ha scelta,
che la preme nel salto e ne schiaccia la testa.
Che la sua è qui con me, tra le braccia
e scolora al passare dell’aria,
con le iridi cielo puntate ai miei occhi
che ora svelano tutto il suo regno,
mi rivelano santa e assassina
mentre veglio il suo corpo e ne vaglio ogni anfratto,
senza fretta, a cercare il passaggio,
il tratteggio che è stato il mio guado.
Feritoia strettissima e cuneo tagliente a far leva,
far levare sui giusti il nitore.
Non è più nessuna geografia.
Non occorre che lui sia.
Non occorre.
Non accorro più, spavalda,
alla conquista del suo campo.
Solo la sua solitudine mi spaventava.
Solo da quella mi difendevo, dal confrontarla
con la mia, ma ora.
Non è più nessuna geografia.
Lui è e lui sa.
Lui è la terra, se lo lecco nel palmo,
che sa di terra, per la geometria sghemba delle mie
linee che nessuna zingara riuscì mai a computare.
Nemmeno quella volta
che le mie cagne le fiutarono la gonna,
ringhiandole in cerchio a tenermela lontana.
Nemmeno quella in cui mi disse che l’avrei incontrato.
Non lui, certo. Non allora.
Eppure già da allora, sin da allora, certo.
E ora.
Che ora sono io.
Che sono io più certa. Più che pura.
Tornata infante a non poterlo raccontare
– Ode alle rose, a non poterne dire il puzzo,
il patio ingombro degli avanzi della festa –
Si torna
per serbare la felicità mancandola di poco.
Rinuncio a lui. Con lei. Non vi trafiggo.
Rinuncio a lei. Con me. Che non si scorda.
Resta.
Mi prostro sul suo sangue e già per questo.
Mi lavo col suo sangue e già per questo.
Mi ama dal suo sangue, sì e per questo.
Vive.

(da Piccolissimo compianto all’incompiuto, Besa Editrice 2016)

Marthia Carrozzo, Proserpina/Kore (o del doppio irrinunciabile)

Due sole monete per vendermi gli occhi.
Due braccia, le tue, che già avevi slentato.
Due cosce, le mie, ma più chiare, a nutrirti.
Due fremiti, ancora feroci, funesti di frusta che schiocca.

Due mani, le nostre, specchiate e di poco distanti.
Due oracoli inversi e sonanti nel grembo avariato.
Due pance, di fronte, confuse, a specchiarsi la veglia.
Due sonni vicini, lambenti, distinti dal suolo.

Due labbra.
Una vulva di sabbia.
Clessidra che scivola il tempo.
Capriola sferrata d’amplesso, che porta il suo morso.

Di nuovo, di nuovo, silenzio.
Di nuovo, di nuovo, spavento, a vestirmi le forme.
Di nuovo, di nuovo, la resa, al suo passo che incalza.
Di nuovo, la carne che chiede e già sperde la forza.

Due soli, da dietro gli scuri.
Due soli profili mischiati.
Due pelvi scollate al meriggio.
Due tende strappate a svelare.

Due seni che avevo succhiato
Due specchi, a ritrarmi incompiuta.
Due graffi ai capezzoli scuri.
Due appigli per dove aggrapparmi.

Due bocche.
Una sola folata.
Clessidra che intrappola il tempo.
Aruspice sotto la pelle spaccata d’attese.

Di nuovo, di nuovo,  il risveglio, l’impasto sciamante di voci.
Di nuovo, intestini di sposa slegati a sterrare
Di nuovo, le vene discinte battenti in levare.
Di nuovo, un rammaglio all’ordito del patto slargato.

Di nuovo, le trecce raccolte, a leccarti la fonte.
Di nuovo, a imboccarti le dita, a contare le ore
Di nuovo, la quieta pigrizia che segue a ogni orgasmo.
Di nuovo, le quinte sguarnite del giorno al rovescio.

Di nuovo, di nuovo il tuo docile cappio smagliato.
Di nuovo, di nuovo, da prima, le labbra serrate.
Di nuovo le unghie limate gia infisse alla crosta.

Scarnifico il senso dei giochi,
riamandomi, vinta.

(inedito)