Patrizia Vicinelli, Albero di Giuda

Bisognerà riscattarti, o nome dei nomi,
sei fra noi con altri nomi, e molti
fanno finta di non accorgersene.
Che mi importa del nome, se ad altri nomi
sei legato e ci imprigionano proprio come
ai vecchi tempi, tempo di faraoni, tempo
di faraoni, cosa cambiò, ohilà,
un bel giardino fatto da uno che conosco,
naturalmente non gliela fanno passare
liscia, ehi, friend, mi ricordo, era così
da un sacco di denominato tempo,
noi a picco sulle colline deserte ce la guardavamo
la luna, anche da certe soglie,
e chi lo può impedire all’uomo, di essere?
no, giuda neanche tu, col tuo malfamato nome,
esattamente il più povero, la tua grande pochezza
ora io la esalto e danneggiare gli altri
ma molto più di te stesso, se fosse mai vero
quello che i farisei riportano, come sempre fanno,
crederei anche ai giornali, e certo
agli speakers della televisione.
Eppure amico doloroso, io ti assumo, e te la
do la benedizione, il più negletto fra gli uomini,
che pessima sorte, oh Giuda!
Noi amici sulla terra amiamo la natura,
e raccontarci delle ultime avventure che sempre
trattano di vita, di vita calda e fuocosa.
Te la racconterò accanto all’albero,
che ti porta, qualche bella storia di ottimi
tradimenti, che portarono lontano,
che portarono lontano. Nel procedere è
assolutamente meglio una pessima sorte, tu lo sai,
così c’è qualche possibilità di essere gli uomini
che siamo, oppure è solo vento.
Giuda te la sei fatta pesa, te l’hanno
fatta pesa, ma c’è qualcuno, qualche vecchio
intenditore di talenti, qualche mago
che sa que pasò, all’ombra dello stesso
giardino di questa notte.

 

(Da Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano, Casa Editrice Le Lettere 2009)

Alì Calderón, I miei giorni

I miei giorni sono un lento specchio intatto che aggroviglia
impassibile
nelle sue fragili fibra la tua immagine

(Da La nuova poesia dell’America latina, traduzione di Loretto Rafanelli, Algra Editore 2015)

Michele Paoletti, Ti ho accolto nelle mie stanze vuote

Ti ho accolto nelle mie stanze vuote
una mattina di luglio in piena estate
mentre gli animali notturni erano ancora
in giro, le bocche della terra spalancate.
Mi sei precipitato addosso senza peso,
senza lingua.

Dentro avevi tutte le voci del mondo.

 

(Da Breve inventario di un’assenza, Samuele Editore 2017)

Enea Roversi, La lingua parlata del neocolonialismo

La lingua parlata del neocolonialismo
Non esiste il talento, non è mai esistito
non c’è spazio per la bellezza nei marci corridoi
dei nostri centri direzionali operativi mercantili
le pareti mobili di zucchero nascondono
scrivanie da encefalogramma piatto
non esiste il sentimento, non esiste l’anima
il vuoto a rendere della redenzione alcolizzata
esiste il risentimento, esiste il fegato
l’animella caramellata edulcorata e sugosa
che cova il male distillato goccia a goccia.

Non esiste l’arte, non è mai esistita
dietro la tela c’è un ragno affetto da mitomania
dentro la cornice la polvere d’oro centrifugata
il museo ha scale a chiocciola scivolose e maleodoranti
intricate e impossibili come quelle di Escher
gli scantinati sono colmi di storie capovolte
e al piano di sopra il muschio impregna gli affreschi
possiamo accomodarci in fila alla cassa
con il postmoderno infilato nelle buste della spesa.

Non esiste la poesia, è una truffa da allibratori
esiste la prescrizione del medico curante
scritta a bandiera con calligrafia da antico Egitto
esiste la lingua parlata del neocolonialismo
e quella urlata dei portatori sani di follia
non esistono i poeti, sono fuggiti da questo mondo
hanno costruito una nave con il Lego e sono salpati
hanno rimosso il romanticismo ma non si sono salvati
non esiste la poesia, non è mai esistita
non c’è spazio per la bellezza nei nostri ipotalami.

Non esiste la percezione, non esiste il pericolo
non esiste la perfezione, esiste il ridicolo
non abbiamo nulla da perdere se non il futuro
aspettiamo la glaciazione del reale sconosciuto
con la testa fasciata e un corno rosso nella tasca
aspettiamo il Messia dalle labbra dorate
il cesto di mele proibite da addentare morbosi
perché appena entrati non esiste via d’uscita
siamo consapevoli che la ricerca non ha senso
perché non esiste la verità, non è mai esistita.

Selenia Bellavia, Knockout

tempesta d’aria
questa luce spaccata
per la fame
darkroom
strafatta
et al piombo collimato
d’Alessandria
recordatio
per niente sobrio l’archipendolo

Traendo queste mani da ricordi, sotto un vento chiuso, a occidente, ingoiavo calde simmetrie come l’aneto giovane il suo prato. E un gran bagliore d’osso spalancava l’orizzonte. O mi sembrava.
Era il tifone sui gradini e diecimila urli nella macchina da gioco.
Era un fragile destino. La febbre nella lingua più rigonfia quanto un bulbo di giacinto respirato a nascere nel tonfo. Era d’azzurro indocile. Una metafora dal tempio. Sorvolava le fatiche amate, necessarie a perdonare il sole o un’altra stella d’obbligo caduta all’orizzonte per un nuovo olimpo d’alfabeto.
Un corallo orfano di dio
cadeva fra un rizoma e un occhio
la segreta luce, mascherava d’oro
il morso della Pizia mentre ingenuo un fiato apriva l’infinita gola d’universo battendo mille volte la corniola ematica più fonda sopra i corpi reclinati a disputarsi inverni, tornando a nascere nel blu dell’agapanto acceso in una stella organica più nova.
Era la parte umana impressa dalla nebbia a radicare i segni ininterrottamente dati mai e ridati in crespi vergini da traduzioni avite per gioire ai nomi o farne vulìo
scaldando al fuoco di un’ellisse ingorda
la lingua sacra dei rondoni
aperta d’una voglia rossa
a ricercare il punto di fenomeno o uno specchio
che lisciasse morbido un altrove
consumando l’ora sull’inciso più accudito per un altro vuoto, per il suo narciso.
Ma sorgeva il sole: ogni stele minima guidava la necessità compresa dell’aurora o forse rimontava una grammatica assoluta alla forza interminabile di questo possibile
dicendomi del kama
delle forme paniche
del mare
e avrebbe finto anche l’estate per un segno dato candido, copiosamente ignudo, spingendo la sua golosità miracolosa nel fogliame dei vernacoli quasi fosse un filamento d’anima capace di flautare una parola che significasse tutto, tutto come amandosi morire – ma sorgeva il sole. Indossavo
la sua pioggia onirica nel dare
nome a un fiore, a un corso d’acqua,
alla voce lieve dell’autunno
naufragando nella danza delle costole
il paesaggio d’una lacrima
battente contro i flutti della storia: al mormorio bucato dell’arteria
muoveva il più terribile, più dolce senso della tachicardia e qualche iddio spergiuro, più vero lui del trifosfato, avvicinava a un palmo le lontananze mitiche, la creta di Babele, il suo tracciato quantico, il fonema sullo iato e d’ogni fibra colma possedeva l’attimo narrato, narrato-come-nostro, l’orgasmica attitudine a tremare
per vivere
sorridere: questa fionda tesa
nel sorteggio cosmico

poi cademmo al solo sguardo simile d’azzurro per una qualche nenia
ci parlammo a forza d’ombre discorrendo con il mare
la ferocia delle rughe / un’onda sei sul grembo dei ricordi / indorando
carne e vino c’inzuppammo anche il midollo come ciò che pur essendo
pur non è sul mondo_ merce_ sintomo_ disegno come quella genesi
che ci contenne incontinendo il soffio di catarsi e ci mise in conto
gli idoli invadenti già avvolgendo una ribellità febbrile ai pesi
più inclinati dai riverberi a ritroso / un’onda sei che addensa
i vuoti d’aria / cancrizzando nostre parodie bevute in chiave di violino
a fingere misura e fingere colore e fingere la forma e fingere
di fingere l’assioma come cisterna infera e una schiuma
oppure il neuma sotto le forze incluse a una possibile mimosa o forse
l’organo, lo spirito, il senso dell’io nei bruscoli
di terra fitta di scommesse / un’onda sei nel folto a confonderci
le felci / tra un’urgenza e una ripercussione noi baciammo l’insistenza
dell’umore innato a rapinare senza un calcolo tutto l’idrogeno dal sole

tenemmo il freddo per un’edera
sanguigna al punto cronico
per consumare un vincolo

fu segnata eco e fu la goccia
dopo la goccia dopo la goccia
a fare un mondo senza il mondo

e una polvere di scanno _ in and out _ già vaga silenziosa rapida improvvisa, vaga pallida come la gomma d’acqua su la quercia e poggia la sua primula nel dosso _ in and out _ sfrenando la radice ressa nello sfamare il banco fradicio a una bocca: se ogni piuma poi nascesse ferma in quintessenza, se l’asfalto ruggine all’impatto di consciènzia ci sfibrasse la sua faccia _ in and out _ la sera strattonerebbe la medaglia indolenzita a conteggiare mandria in _ assieme out_ inchiodando il responsorio al suo knockout.

Paolo Ruffilli, La parola per me

La parola, per me,
veniva da distante.
Un a priori, quasi,
l’avvertivo. Un eccitante.
In un processo in
qualche modo inverso.
Nel darle per riscontro
una realtà che invece,
più toccata e presa, più
sfuggiva inconsistente
ai cinque sensi.
Con l’effetto di essere
lanciata contro un corpo
pronunciato e, nel
suo dirlo, di colpo
riafferrato.

 

(Da Piccola Colazione, Garzanti Editore 1987)

Luca Minola, Dopo non serve più nessun classico

Dopo non serve più nessun classico,
nessuno che misuri la notte in metri,
che riceva rassicurazioni, facili progetti.
Con i venti a intermittenza sui lati
e la schiuma della pioggia che scende
come quel caldo blu che sprigiona la notte.
Nemmeno queste bucce d’arancia
riassorbite dal tavolo servono
questa natura morta che riporta il rito,
l’azione che si stempera contro le finestre
in brevi flussi e immagini a campione.
Tutto visto e riportato, quanto basta
per smussare con precisione i marmi
e rendere cartelle e protocolli inutili.
Come se il reale fosse questo stonare di dita,
il movimento, le azioni disciplinate:
l’apertura di un corpo e il suo molle riposo.

 

(Da Pressioni, LietoColle 2017)

Valentina Di Stefano, Sospira il maestrale in graffi rauchi

Sospira il maestrale in graffi rauchi
tra onde di sabbia incalzate
da sogni sfuggenti
ed è incoerente il grido del mare
nel tumulto dei giorni
dal sangue fermentato.
Il cielo plumbeo,
in nuvole a strati,
brunisce, lucido,
il silenzio di anime stantie.
Improvviso sopraggiunge
il sorriso potente dell’alba
ad addensare nuove speranze e,
vigorosa, la luce fredda del mattino
riverbera tutti i moti del cuore.

 

(Inedito)

Michele Paoletti, Io sono questi pantaloni

Io sono questi pantaloni e questo
paio di calzini, sono un paio
di mani e capelli alla rinfusa.
Tutto il resto immobile.
Solo questo viavai di gente
che chiede e nomina e dice
amore. Parto da qui. Da questa
gioia che frana intorno. Viva.
Fuori di me.

 

(Da Breve inventario di un’assenza, Samuele Editore 2017)

Carmine Lubrano, E noi poeti

e noi poeti siamo rimasti senza bandiere rosse e senza versi
vendiamo ora le nostre parole con il ritmo eloquente
della masturbazione ma tu cantami l’epicentro eruttivo

cantami del carminio carnale tra coliche e cisti
del capriccio e del catarro in un esotico esordio

cantami della vendemmia e della maraviglia
cantami della schiava che ha spezzato le catene
e del poeta che ha scritto cento poesie d’amore
cantami della femmina che parlava alla luna
della femmina-cielo che guarda il mare e trema al tramonto

tu Anna Blume tu maria tu madonna della fonte
tu donna lapidata dalla folla tu madre
tu sibilla tu vergine sgualdrina cantami

dal cantico dei cantici cantami della bellezza
e dello schifo in questo pozzo di piscio cantami del vomito
che ti prende per gli amori morti nella notte che brucia le vesti
cantami con lo sputo degli artisti
l’andar di corpo all’ingresso dei vulcani

e saprò scrivere della lucciola e della rosa
del pane duro masticato senza denti e dello sgomento
che ti prende in questo paradiso senza santi e senza amanti
paradiso infernale dove c’è chi muore affogato nella merda
dove c’è chi piange e piange sangue
sangue ‘e puorco sangue ‘e chi t’e’ mmuorto

saprò scrivere il rosario delle criature il rumore della terra
con le mani sudate i ciliegi feriti dal filo spinato
ed il flauto spezzato e madonne sbordellate nella
smarrita tregua appena carezzata i ciori ammosciati il mare
‘nfetato

saprò scrivere della marea che gonfia le ombre
e dei miraggi che dilatano i nostri pori
degli abissi e della vertigine che ti assale con artigli
tra frasi e rumori da cui bisogna lavarsi e sbadigli

saprò scrivere come gli eretici
della paura per la catastrofe senza complici e con la
trama del silenzio parole a brandelli che assalgono
amare sulle labbra pozzanghere

saprò scrivere della sete e della ferita
dell’inquieta gravida bellezza e mai sazia di sesso
col vizio della grazia e senza pigrizia e con la delizia
il capriccio di un amante randagio in un coito cocente

e saprò carnale e carnevalesco
chiederti la nudità e l’infetta epifania
il bacio sulla fronte e la copula impura santificata
la vera medicina la stessa malattia acqua
che ribolle nella maraviglia