Francesco Lorusso, Nel corpo pieno del mattino

Nel corpo pieno del mattino
una smania oscura si sveste
sul cipiglio fervente dell’asfalto,
la strada lucida ricopre la preghiera
che la lascia correre fiera nel ritorno
quando alto si è fatto il bersaglio,
sospinto dai colori e da altro ben oculato
nella indolenza così tanto opportuna
o dal freddo che adesso lo ha ricoperto.

 

(Da Maceria, Arcipelago Itaca 2020)

Maria Stella, Elastico

Elastico
Nell’infanzia per lo più sostantivo:
familiare e proibito compagno di giochi.
Serviva a legare le trecce di giorno,
la sera veniva strappato con furia
intrecciato ai capelli.
In una scatola a fiori,
di latta, nascosta
dentro il suo archivio
mio padre ne conservava geloso
di tutti i colori: molli cerchi
turchini e vermigli,
allacciati in lenti grovigli,
refurtiva preziosa
dopo segrete incursioni.
Sicché stupivo a casa della compagna
trovandone appesi
con incredibile scialo
larghi bracciali
alle maniglie alle porte.
Nell’ora delle lezioni
servivano a fare le fionde
per le palline di carta e saliva,
a trarne forme strane come si fa con lo spago,
a pizzicarne varie vibrazioni,
ben poco a legare stringere.
Cosa che invece pian piano
con grande educazione
l’elastico
cominciò a fare
attorno al mio corpo adolescente:
più o meno alto, piano o tubolare
contribuiva discreto a sostenere
giarrettiere e mutande,
facendosi sempre più lieve e trasparente
sulle spalline del reggiseno.
Elastici che altre mani
ancora poco sapienti
appresero presto a slacciare.
Quand’ebbi diciott’anni
con rapida improvvisa mutazione
divenne aggettivo, maschile singolare,
da rinfacciare, al negativo,
innanzitutto al compagno: non sei per niente
elastico.
Concetto che negli stessi anni si allungò, si estese
e scartando con radicale coerenza
persone,
stili di vita,
forme di conoscenza,
mirò teso
a colpire il sistema:
erano gli anni duri della teoria
anni che rimbalzavano poco
e prescrivevano fino al millimetro
l’ampiezza delle vibrazioni consentite
(agli altri naturalmente, dato che noi ponevamo il
problema)
sicché infine l’idea stessa di elastico
risultando inservibile
schioccò e si ruppe,
consegnando a noi stessi
le nostre armi spezzate.
Seguirono gli anni della resa:
accettata impotenza
in cui saggiare istante per istante
resistenza e tenuta
dei propri solitari rimbalzi,
senza più tante
presunzioni teoriche,
lievi tuttavia se quel molleggio
s’accordava per caso
alle parallele
indipendenti
oscillazioni di un altro.
Finché infine un giorno,
del tutto fuori stagione
rotolò ai nostri piedi
il frutto della maturità:
fulminea visione
in cui coincisero
il nome e la qualità,
l’uno e l’universale,
si fusero il bello e il vero:
stavolta l’elastico
– uno solo per entrambi –
era intero
reale
come noi,
in tensione
reciproca
e globale.
Rosa pallido
era
un sottile filo rotondo
stretto ad occhiello a un capo, all’altro
una di quelle palline di pezza
cucite insieme a spicchi,
– flosce arance multicolori,
piene di fini grani di ghiaia –
che da bambini piaceva
lanciare con soffici tonfi sui corpi,
poi riafferrare al volo:
metafora lucida del possesso del mondo.
Così stupiti increduli
abbiamo ripreso a giocare: e ora
ogni volta che infili al dito
quel cappio e tiri verso di te,
pronta dall’altro capo accorro
nel cavo della tua mano,
o viceversa resistendo
senza mollare
attendo sia tu a rispondere
alla mia trazione,
sicché comunque attorno
a quella sfera
– come all’arcana prima mela proibita –
convergono
sorprese,
elastiche,
le nostre dita.

(Da Accompagnarti, Il Girasole Edizioni 2004)

Pasquale Vitagliano, Hai mai sentito un esempio

Hai mai sentito un esempio
che non fosse banale?
Perché tutti credono ai luoghi comuni:
il bene degli altri, i valori nella fossa,
il non provare risentimento,
i pensieri scevri da pregiudizi,
il bi e il ba che nessuno ricorda più.

La nostra vita non è stata banale
perché non abbiamo perso tempo,
ci siamo buttati, abbiamo ballato,
ci siamo svestiti come fachiri sulle piante dei dolori.
Siamo rimasti a zero, senza benzina,
fuori campo, siamo arrivati lo stesso.

La nostra vita non è stata banale
-a parte il dirlo. Perché non è un esempio.

 

(Da Cibo senza nome, LietoColle 2011)

Alberto Toni, Il giorno è benedetto perché è nuovo

Il giorno è benedetto perché è nuovo.
Sollevo la mia necessità da terra, lascio stare
le macchie sul pavimento, distratto per un attimo
dal titolo di giornale, ardo, consumo, come
l’ombra seduta al tavolino, povera l’ombra
più non vedo oltre la pagina, lontano.

 

(Da Vivo così, Nomos Edizioni 2014)

Anna Maria Curci, Quartina LXXVIII

LXXVIII

Come a un calzino rivoltato in dentro
vado tastando buchi e cuciture
a te, mistero, decriptato a sbafo,
che ritorni per essere incompreso.

(Da Nei giorni per versi, Arcipelago Itaca 2020)

Fernando Della Posta, Saremo ripiegamenti su alture

Saremo ripiegamenti su alture.
Saremo agguati lungo la scalata.
Giocheremo di nuovo a passarci il mondo sulle dita.

(Da Sembianze della luce, Giuliano Ladolfi Editore 2020)

Enzo Campi, Ciò che sopravvive all’apocalisse

“Ciò che sopravvive all’apocalisse
è il relitto che anticipa l’avvento morendosi”

Se pure scandita per lessemi
impronunciabili rinviene chiara
al lobo la sentenza che il coro
dissemina, da giorni, nell’intero
intorno: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi

Per questo il viandante può approdare
solo naufragando e rivendicando
l’ascesa, la caduta, la sospensione
e gli affabulanti fraseggi in cui
montare e smontare la serie dei
feticci. Ecco, questo è l’aspetto
trascendentale del sacrificio.
E tutto si pone in attesa,
come se lo stallo fosse l’unico
escamotage capace di lenire il peso.
Certo, il coro aiuta non poco,
lavora di fino con ago e ditale
e replica, puntuale, colpo
su colpo, vanificando le schegge
che tentano di travalicare
il rituale in cui annullarsi. Così,
tanto per recitare di getto la sterilità
del dato di fatto, che non si fa,
non si disfa mai da solo, ma rinnova
l’insipienza che regola il gesto coatto
di rendersi allo speco. E ad ogni passo
in avanti il viandante si volta indietro per
sbeffeggiare il passo che l’ha preceduto.
Così, non curandosi di ciò gli si para
dinanzi, inciampa nel sasso e imprime,
nel limo, lo stampo del suo corpo, poco
affine a qualsiasi declinazione temporale.
Questo è il verbo del tempo, una cosa
tra le cose, ripete fino allo sfinimento
il coro, e in un solo istante tutto diventa
labile e si forgia nell’evanescenza
di un soffio impossibilitato ad agire
e reagire. Così, a mezza via tra l’algida
febbre e lo spasmo contratto, quel viandante,
troppo umano per essere reale, si sovrappone
al simulacro, si sistema nella gabbia
e si pone all’ascolto di quell’irritante
brusio che recita la litania del passaggio.
Non disdegna il salto sul posto, ma non si
sposta neanche di un centimetro. E pure
s’interra, ogni volta di più, innervandosi
nello spasmo, come se la sua sola ed unica
preoccupazione fosse quella di sprofondare,
di stabilire un regime di prossimità con
quelle radici più volte ripudiate, non per
libera scelta, ma solo per quella tacita e
pacifica consuetudine che non può ridursi
alla mera ripetizione di ciò che può essere
verificato nel breve volgere di un battito
di ciglia. E anche il coro, in segno di lutto,
non può far altro che recitare il mea culpa
e osservare un minuto di religioso silenzio

Se pure sussurrata per oscure
glossolalie risuona chiara
al lobo la profezia che il coro
incide, da sempre, levando
lo scalpello: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi

Per questo, forse, il viandante muore
solo scrivendosi. Del resto c’è
un solo humus da riplasmare, ma
sono infiniti i lapsus da perpetuare.

 

(Inedito)

Manuel Paolino, Stratagemata

Figlio, vi siano i poemi
di Omero – la ferocia di Achille,
la metis mortifera di Ulisse –
nella tua persona.

Avere un padre poeta, vedi,
non comporta alcun peso:
io sono come te,
e non serve somigliarsi in tutto
quando due anime sono così vicine.

Essere figlio di un poeta
significa però questo:
sii sempre forte e saggio;
sii sempre libero e te stesso;
coltiva il tuo valore, il tuo talento,
la tua ars;
apprendi gli strategemata, più ancora
di quanto abbia fatto tuo padre.

Figlio, scavalca tutte le ombre,
proprio come Annibale.
Sii il Barcide, che non temeva niente.
Sii il suo ingegno.
Ma se dovessi trovare Scipione,
scappa.

Oppure anche tu, infine, stavolta furbo,
incontra quel veleno: e che sia miele!

(Inedito)

Yun Dong-Ju, Cuore

Davanti al focolare che si va spegnendo
questa notte invernale diventa sempre più fonda.

Rimasta soltanto la cenere, il cuore
trema al suono della porta di carta.

 

(Da Vento blu (Cielo,vento, stelle e poesia), Ensemble Editrice 2020, traduzione di Eleonora Manzi)

Massimiliano Chiamenti, Più niente

non capisco più niente
non so fare più niente
non ho più niente
non sono più niente
soffro e tengo duro
un soffrire e un tener duro
che non servono a niente

 

(Inedito)