“Ciò che sopravvive all’apocalisse
è il relitto che anticipa l’avvento morendosi”
Se pure scandita per lessemi
impronunciabili rinviene chiara
al lobo la sentenza che il coro
dissemina, da giorni, nell’intero
intorno: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi
Per questo il viandante può approdare
solo naufragando e rivendicando
l’ascesa, la caduta, la sospensione
e gli affabulanti fraseggi in cui
montare e smontare la serie dei
feticci. Ecco, questo è l’aspetto
trascendentale del sacrificio.
E tutto si pone in attesa,
come se lo stallo fosse l’unico
escamotage capace di lenire il peso.
Certo, il coro aiuta non poco,
lavora di fino con ago e ditale
e replica, puntuale, colpo
su colpo, vanificando le schegge
che tentano di travalicare
il rituale in cui annullarsi. Così,
tanto per recitare di getto la sterilità
del dato di fatto, che non si fa,
non si disfa mai da solo, ma rinnova
l’insipienza che regola il gesto coatto
di rendersi allo speco. E ad ogni passo
in avanti il viandante si volta indietro per
sbeffeggiare il passo che l’ha preceduto.
Così, non curandosi di ciò gli si para
dinanzi, inciampa nel sasso e imprime,
nel limo, lo stampo del suo corpo, poco
affine a qualsiasi declinazione temporale.
Questo è il verbo del tempo, una cosa
tra le cose, ripete fino allo sfinimento
il coro, e in un solo istante tutto diventa
labile e si forgia nell’evanescenza
di un soffio impossibilitato ad agire
e reagire. Così, a mezza via tra l’algida
febbre e lo spasmo contratto, quel viandante,
troppo umano per essere reale, si sovrappone
al simulacro, si sistema nella gabbia
e si pone all’ascolto di quell’irritante
brusio che recita la litania del passaggio.
Non disdegna il salto sul posto, ma non si
sposta neanche di un centimetro. E pure
s’interra, ogni volta di più, innervandosi
nello spasmo, come se la sua sola ed unica
preoccupazione fosse quella di sprofondare,
di stabilire un regime di prossimità con
quelle radici più volte ripudiate, non per
libera scelta, ma solo per quella tacita e
pacifica consuetudine che non può ridursi
alla mera ripetizione di ciò che può essere
verificato nel breve volgere di un battito
di ciglia. E anche il coro, in segno di lutto,
non può far altro che recitare il mea culpa
e osservare un minuto di religioso silenzio
Se pure sussurrata per oscure
glossolalie risuona chiara
al lobo la profezia che il coro
incide, da sempre, levando
lo scalpello: ciò che sopravvive
all’apocalisse è il relitto
che anticipa l’avvento morendosi
Per questo, forse, il viandante muore
solo scrivendosi. Del resto c’è
un solo humus da riplasmare, ma
sono infiniti i lapsus da perpetuare.
(Inedito)
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