Federico Scaramozzino, Una poesia per indiziati

Una poesia per indiziati, un dire
sboccato, una parola
screanzata che si fa largo
e spadroneggia il silenzio.
In queste pagine spresidiate,
aperte al pubblico, in questi spazi
senza transenne
mi faccio tramite,
peccatore come sono.
Autore senza creato
che nulla aumenta
con questo scrivere
in contumacia
la sua condanna al resto
incompiuto della pagina.

(Da Temo che venga l’angelo, Italic 2019)

Francesco Deotto, Beninteso

Beninteso,
“in terra di smarrimento”,
non è ammessa rincorsa
agli infiniti automatismi
che ci sarebbero occorsi,
senza-dubbio-fin-da-subito,
ben più pronti.
Nondimeno,
tra gli attori dei giochi, o dei cosmi,
dei micro-macro sismi,
che dir si voglia,
almeno si ricordi
la famiglia
dei dermatofagoidi.
Surrettizi ed inemendabili,
sgomitano, difatti,
già nelle halls degli hotels,
sussultando, fin nei corridoi
dei corrimani.

Si immagini, quindi,
il loro organizzarsi,
la loro inumana potenza,
nelle gallerie dei servizi,
nei sepolcri imbiancati,
o, peggio,
nei casellari dove vengono incisi
i nostri nomi.

 

(Da Nella prefazione d’una battaglia – Degli esercizi di una “labirintica Bestia”, o, quantomeno, di qualcuno che potrebbe non esserle troppo dissimile. A cura di Francesco Deotto, Italic 2018)

Davide Castiglione, Ape

Sul battiscopa la sua mite industria
le rimane aliena. Parlo di cose più grandi
di noi, di un’ape che si arrampica,
malamente – ti suono lontano, al telefono, e quella pena
in salita, che non potrà salvarsi
dai ricami sull’esistenza e i merletti accaniti
si stacca; è un corpo
per terra; tòrto; terminale.
Capiterà di pestarlo; passare
l’aspirapolvere la spugna e via.
Avrò strisciato un ciao in minore
e chiuso, avrò passato l’aspirapolvere, e via,
l’acino scheletrito ascende e va alle stelle
la fiducia alla tele, l’annuncio
che la stagione si apre in grande
e macché cadere lei dolcemente scendeva
dal pendio domestico, che l’inverno è anche questo.

 

(Da Non di fortuna, Italic 2016)

Alessio Alessandrini, I vecchi

I vecchi hanno un cuore liquido
fin dentro alla noce degli occhi
se li pungi con l’ago ne sussurra
un lago di canizie e ricordi.
I vecchi hanno stringhe bagnate
lunghe chilometri di inciampi,
per rincorse a fiato corto
contro balconi aperti
e un mezzo giro di danza
sopra al contorno dei davanzali
se sognano le ali dei piccioni
a cui gettano il mais tostato,
credono di avere nove vite
come i gatti e partono
per il loro viaggio forzato.
I vecchi bestemmiano il
Dio degli sfratti e figli
troppo presto resuscitati
pronti a metterli in croce
nei reparti ospedalieri.
I vecchi ciarlieri, la voce
impagliata nella giugulare
passano di mano la vita
come le carte del poker
a qualche fossile giovane
sfrontato con le Foot Locker.

 

(Da Somiglia più all’urlo di un animale, Italic 2014)

Davide Castiglione, Devo a un lunapark congelato

Devo a un lunapark congelato
qualche gettone d’antecrisi
quando era la vacanza non io a condurmi
e la pesca dei cigni sortiva
marchingegni chiassosi e luminescenti.
Devo sempre qualcosa, Excel aiutami
col tuo retino casellario per quanto risibile.
Ultimato l’inventario un po’ malcerti sul podio
stanno l’urgenza e il fiatone
sul versante dei trenta, il ritorno all’accetta
che deve sfrondare ovatta su ovatta
sventrare il peluche
vinto fuori tempo massimo.

 

(Da Non di fortuna, Italic 2016)

Alessio Alessandrini, Demineralizzati

Galleggiamo imbottigliati,
ognuno in un privato ma legittimo
impedimento. A volte ci scontriamo:
freno, pedale, acceleratore
e andiamo in frantumi come vetro
o gocce che scivolano via neutre
in una pozza dove speculiamo
ostentatamente nel puramente osceno.
Ma è una lotta muta, fiera,
ferocemente inumana
mette paura al pensiero.
Straniero – estraneo nei paltò
inceneriti, vegliamo il nostro
esteso funerale occidentale.
Eppure andiamo, ognuno
in gran segreto, occultati
nell’intimo agonizzare.

Guardare, toccare, sentire
sono verbi che bruciano
per questo più spesso preferiamo
abbassare lo sguardo, declinare l’invito,
lasciare che il corpo segua
il suo tintinnare fino a sfaldarsi,
sfogliandosi a poco a poco,
diluito nel mare catodico:
anfibi e senza spina dorsale,
molluschi, mitili siamo:
stagniamo più che avanzare.

A poco a poco, a poco a poco,
trasciniamo fino a evaporare.

 

(Da Somiglia più all’urlo di un animale, Italic 2014)

Luca Buonaguidi, Il suono del vero

Il suono del vero,
nel fruscio di un gatto
furtivo di notte a Kyoto.
Bevo una birra in disparte.
Una geisha traslucida
sfuma nella strada elettrica.
Le faccio una foto.
Non vedo davvero.
Né comprendo.
E il gatto è scomparso,
resta il rumore del tempo.
Tutti dovremmo vivere
come i gatti, sornioni
sul ciglio dell’Altro.

 

(Da Uno studio sul niente. Viaggio in Giappone, Italic 2018)

Luca Buonaguidi, Tokyo

Tokyo non ha l’odore
di una megalopoli
e per strada aspettavo
un rumore maggiore,
un orrore senza grazie
sparse, piccole e improvvise.
Ripenso a Trampling Tokyo
quel racconto di Alan Moore
in cui Godzilla appare:
“stanco di spaccare Tokyo
non c’è più alcun interesse
nel mangiare automobili…
Annoiato a morte
mentre respiro forte
e abbrustolisco il viale…
un tramonto radioattivo
sorseggiando raggi x
sotto il cielo color vino
le onde sono funghi atomici
e i pesci volano senza freno”.

 

(Da Uno studio sul niente. Viaggio in Giappone, Italic 2018)

Riccardo Mazzamuto, Fantasmi

Le finestre mostrano
di solito in città
altre finestre dove
puoi percepire
il residente accanto
vicino e di fronte
se sei fortunato…

Invece abitando
a terreno puoi
imbatterti in nauseanti
odoracci di piedi
per presenza di area
adibita a Moschea
con Pellegrini scalzi
preganti dopo una
giornata di lavoro.

Dei palazzi pareti
serrano ogni altra
veduta probabile
forse magari dietro
c’era un parco con verde
una bella fontana
o appena un albero
o appena un cielo…

Tu noi sei siamo
obbligato obbligati
a vedere solo in
una – quel ritaglio
perché qualche
demente comunale
deciderà in Regione
anche per te noi voi…

Questo se abiti in città…
fuori, o campagna
o periferia mono–
bi – familiari ammesso
che non si intrometta
qualche fantomatico
testa sapientone
a depredare vista
e panoramica, le
finestre diventano
soltanto elemento
essenziale per area
e luce alla stanza.

Non permette il contesto
d’immaginare, sia pur
attraente è statico…
un albero collina
uno spazio di verde,
non ci fai più caso
ti abitui per sognare
devi prendere l’auto
e andare in giro
o alla tv o al computer.

In città le finestre
oltre al rapporto aero
illuminante danno
altro significato:
ad immaginare occhi
che guardano fiumi
auto dalle strade vie…
volo di tetti uccelli
in cerca di niente
frastuoni mutano
come persone e anni
o televisione alta
del vicino o più d’ogni
realtà occasione
d’immaginare eventi
che forse accadranno.

Mattine con vedute
diverse pomeriggio
e sera dalla notte.

Le finestre in città
dal 3° piano servono
anche al suicidio,
semmai ci fosse questa
estrema esigenza…
Quante finestre ad «ora»
case squillo spiate
hanno esistenza in città
tutti in comproprietà
sanno tutto di tutti,
pareri abiti nomi
politici e sessuali
truffe sentimentali…
ma, quando all’interno
qualcosa di fatale
accade non riesce
nessuno a dar dettagli
precisi all’evento…
Eletti psicologi
sociologi, sembrano
loro in confusione
mentale, e malati…
i soggetti in cura
continuano a colpire…

Germogliano amori
avventure amicizie
maschio e maschio
femmina e femmina
maschio e femmina

Tutte brave persone,
l’epilogo tragico
avveniva e sempre
tra maschio femmina
con morte della stessa.

Forse vedono solo
oltre quella finestra…
solo ciò che accade
ad altri tirare fuori
comodità per Chiesa
ma dentro la stanza o
le stanze all’interno
delle finestre c’era
vuoto perbenismo
criminal familiare.

 

(Da Diligenza del non padre di famiglia (art. 1176 c.c.), Italic 2018)

Roberto Ariagno, confidare in una morte estiva

confidare in una morte estiva, rabbrividire
concedere alla solitudine (a prati declinanti
fioriti in fretta, a penombre fondissime
a qualche impercettibile vicinanza o ronzio)
la veritiera e impossibile condizione, se l’occhio
liquido, viperino del dio, la sua capacità
di enunciare il mondo, mentre il piede procede su scisti
e selci e rocce che s’aprono in scaglie in quasi lucide
in lamine scottate; ancora un vento fresco
a confondere a ubriacare sulla pelle bruciata
dal mezzogiorno, la potenza del continente
la dorsale del massiccio sotto i piedi, capace
di aggredire, di avvelenare l’aria di sue parti
minutissime, di vertiginose profezie; tu stesso
quasi-mostro o creatura lunare in quegli occhiali
da ghiacciaio, assistito al respiro, a vederti –
finalmente giunto in luogo disperso, in parte
di microspazio, in frangente o quanto – a vedere
te che come lontanissimo sollevi una
gamba e senza più rumore alcuno poi
abbassi il piede a terra e sali ancora uno
o due passi – la fatica, il dolore stesso quasi impercettibili,
sulla bocca il sorriso di una lucida,
appena sussurrata negazione

 

(Da Disarmare il nome, Italic 2016)