Paolo Febbraro, Mia moglie è dal suo parrucchiere

Mia moglie è dal suo parrucchiere
seduta allo specchio, sotto mani
guantate in lattice che intrecciano
e sciolgono la scena della corta
capigliatura. Come labili punte
di lancia i capelli inumiditi
le segnano una tempia o si alzano
in cresta prima che il pettine
li rimetta all’ordine e all’età.
Lei increspa la fronte, accentra
le pupille cerchiate di neon,
si scruta: «Oh se la fine –
pensa, e non è più distratta –
fosse il mutamento di un’ora,
lo spezzare calcolato di un capello
e non questo svanire presunto
inosservabile, questa lavatura
delicata e infame. Fosse uno squillo
solenne, una catastrofe precisa
cui ci si rechi come a scadere».
Poi s’alza, in piega asciutta,
paga silenziosa, esce in strada
ed il cammino la riporta rapida.
Sento la chiave nella porta,
il passo chiaro, appena disperso,
che stringe ormai la penna all’ultimo verso.

Non è meno infinita del mare
la roccia, con il suo non parlare
tetro, materia delusa, implosa,
nel suo sgretolarsi, una rosa.

 

(Da Il bene materiale, Scheiwiller 2008)