Francesca Moro, I miei piedi in una sola mano

I miei piedi in una sola mano
e un camino, bianco come fili di marmo,
come i fili di ricamo per i calzini.
Stavi lì e mi leggevi
di come i ricordi possano essere a puntini
sospesi nel vischio che intrappolava gli uccelli.
Il suono ogni tanto tremava
al ritmo degli scoppi nella brace
quando mi ricordavi come scrivere col fumo.
Ogni tanto girava la voce nel telefono,
i numeri sospesi in una giostra,
ed era una lenta danza verso la voce
dondolante di stoffa alle caviglie
che inseguivano i fichi secchi ai bordi delle strade
quando l’unico copricapo era una legna in equilibrio.

Ora i piedi sono ruote ma con il freno
e li tengo in due mani ma senza riscaldamento:
non arriva la fiamma a toccare i fili di neve sulle spalle
e la mano collinare è diventata coperta al vento
non più custode di scritte di carbone.
I segreti della porta sul retro non li sai più raccontare,
e ora la vita è in uno specchio smussato
e chi ti guarda è un volto di cenere.

(Inedito)

Francesca Moro, L’inverno è tardo

L’inverno è tardo
come le ultime foglie di dicembre.

Ho portato un respiro nello zaino
e il soffio del ginepro.
Mi siedo in un parco a cercare fra i tigli
le pagine di un racconto (i fratelli
Grimm, se questo caldo non è nebbia alla memoria),
lo leggevi accanto al letto quando
una trapunta arancione era il solo legame con il sonno.
È ancora con me sai? Ma l’ho capovolta,
i segni dei bambini vanno preservati,
eppure ancora è custodia al mio riposo.
Il tuo invece non ha protezione:
stai in attesa del mattino con gli occhi aperti
e la sveglia non ti disturba ma è scusa
alla tua frenesia.

Ho portato la radice del ginepro nello zaino
ma questa terra tra i tigli è magra,
il ricordo non si innesta in questi rami
e questo verde in ritardo è solitario.

È tardi,
il nuovo orario lascia poco spazio a questo sole strozzato.
Forse un giorno sarà sfrontato anche
questo odore di tiglio e di camino.

 

(Inedito)

Francesca Moro, Condividemmo i tocchi che appartengono alle ombre

Condividemmo i tocchi che appartengono alle ombre,
come una finestra sulla strada:
passa la luce senza la polvere
e i chicchi dei soffioni li trattengono le zanzariere.
Li raccogliemmo un giorno,
si scavarono la via fra le filature della piazza,
quando ogni suono segnava primavera.
Ora dormono secchi in qualche ricordo
– di quelli conservati nelle scatole del gelato -.

Ora ti guardo e sei riflesso
sulla crepa che divide il vetro.
Non torna la forma del bagnato sotto i piedi
– scalzi salirono fra i muri
furono impronta sulla via del ritorno -.
Resta l’orma e l’odore
come aroma di naftalina fra i lenzuoli,
quell’appiccicaticcio che si aggrappa alle mucose
rilasciandosi in respiro quando si fa sera.