Andrea Raos, Fuori dal laboratorio

La terra esplodeva, ancora una volta. Sono milioni di millenni
in piena, per completa frantumazione
si riversano per terra – esplode, esplosa:
“nella dolcezza, nell’amore,
né la dolcezza né l’amore
stanno – non sopporta più niente,
la vita, non sopporta niente”
“venite, attraversiamo” – traversando
“volo d’animali,
l’immenso il più disteso
non ho mai visto un altro fiume” – con l’amore
come l’acqua, com’è acqua,
colma di leggera, come fuga
a malapena, a stento volo, che non vuole,
che non prende il volo. Sprofondano dentro la terra,
cascate di roccia che la roccia, voragine che dentro la voragine,
da quella stretta che, dentro, alleva,
morso dalla morsa della pietra:
“trasvolando che sento, che cadrò”.
La roccia si solleva, esplode il suolo,
si fa lava, bolle, folle:
è trasvolando che cadendo, sciame dopo sciame,
tutto passa.
Ed ora che passato
passava tutto, intero, per intero,
e su ciò che diventa, si avventa:
l’orso piccolo strappato, che confuso, dalla madre,
alla madre, ombra,
l’orso da poco nato che spaventa
ancora il mondo (che da adulti rende muti senza spaventare, è lì e
basta, è cosa che succede, uccide),
che zampetta e uggiola un po’ debole, un po’ mite – è via
dalla madre
ombra, d’ombra
“ti ho sognata ma eri già morta,
ti ho sognata ma non eri niente, un agitare
di follicoli, estinzioni, di parentesi”
cosa, oh cosa di sangue e di niente, ad annerire ora,
cosa significa restare in vita?
che cosa strazia ora questa
mano, mano che non tiene? questa gola?
capivi che ne usciva suono, nel frastuono,
non perché la vibrazione arriva,
non vedi il battere
e ribattere laringe, strepito –
è il corpo intero che si chiude esplode,
ricontrae, riesplode, nel riaccelerare che il respiro,
per respirare, spira, che i polmoni,
nel vibrare, emettono, riemettere
con tutta la carne che li chiude
mentre, ancora (e come morde, come tremito, che trema)
e nuovamente, intanto,
affollano il nascere i morenti, si affollano, al disnascere, smorenti
– l’orso piccolo, già morto, muore ancora,
cosa nasce?
l’ape pazza che attraversa, il corpo,
cosa non nasce?
sono soli, ora, il vuoto, accerchia l’erba,
verso cui, già piega, verso dove
la terra serba il pianto che le spetta,
cosa nasce e non nasce?
allontana, l’allontanarsi altrove, il numero
di api-sciame, innumerevole –
cosa né nasce né non nasce?
“Non posso, pure, non passare, vero?”

 

(Da Le api migratori, Oedipus 2007)

Luigi Di Ruscio, Con la fine degli umani

con la fine degli umani i grattacieli
si copriranno improvvisamente di licheni spumosi
gli asfalti inizieranno fioriture
che richiameranno gli insetti più luminosi
nessun gatto
rischierà di venire castrato
e nell’universo rimarrà lo splendente ricordo
di essersi visto con l’occhio umano

 

(Da L’iddio ridente, Edizioni Zona 2008)

Laura Accerboni, Se quest’angolo scuro

Se quest’angolo scuro
perdesse memoria di sé
se questo volto assediato
rinunciasse
al primo dei suoi nomi
se questo piano familiare
di difesa
trovasse in casa
l’ordine
dell’esplosione
allora avrei forse da dire:
“imputato si alzi”
e sarei già in piedi.

 

(Da Attorno a ciò che non è stato, Edizioni del Leone 2010)

Francesco Scapecchi, Sgocciolavo davanti a te

Sgocciolavo davanti a te
come davanti un agosto sicano
che arde l’arsa e secca terra
e come questa immobile mi sgretolavo.
Mi scioglievo davanti a te bruciante tutta
che eri il Sole un poco più vicino
venuto nel suo più divino portamento
a confidarmi quanto fosse stanco
di splendere per noi da così tanto.

 

(Inedito)

Tiziana Cera Rosco, Guardare con perfetta anima

Guardare con perfetta anima
qualità – peso
una certa conduttibilità dell’umano
è soprattutto riconoscere
la primitiva predicazione del tempo
la pulizia che porta
questo grado che il presente sgombra
qualcosa di silenzioso ed infallibile anche a me
mentre torno a casa
e non aspetto una scrittura anticipata
ma la vita che avviene

come una manna aperta
lenta
una lingua proporzionale alla mia bocca.

(Da Il Compito, La Vita Felice 2008)

Giorgio Orelli, E’ questa la Domenica Disfatta

E’ questa la Domenica Disfatta,
senza un grido nè un volo dagli strani
squarci del cielo.
Ma le lepri
sui prati nevicati sono corse
invisibili, restano dell’orgia
silenziosa i discreti disegni.
I ragazzi nascosti nei vecchi
che hanno teste pesanti e lievi gobbe
entrano taciturni nelle case
dopocena; salutano con gesti
rassegnati.
Li seguo di lontano,
mentre affondano dolci nella neve.

 

(Da Sinopie, Mondadori 1977)

Bianca Madeccia, Esci da te

Esci da te, guarda l’altra sponda,
la verità giungerà da lì, avrà
il volto innocente della gioventù
e la saggezza della maturità d’anni.
Giungerà nella stagione delle spine
e avrà come maestri aquila e cigno,
potere e solitudine, spazio e purezza,
alchimia delle due menti diventate una.

 

(Da L’acqua e la pietra, LietoColle 2007)

Daniele Barbieri, Ora

ora, nell’ora dell’ora, di colpo guardarsi attorno, che non c’è nessuno, nella folla, che mi sia qualcuno,
eppure sono qualcuno tutti, sono io nessuno,
nell’adesso dell’adesso nessuno e qualcuno scorrono, nessuno vede qualcuno

 

(Da Distonia, Kurumuny Edizioni 2018)

Loriana D’Ari, Lei sta

Lei sta
scolpita nel ghiaccio
racchiusa
in aura di nevischio
assorta, lo sguardo appeso
all’infinito, di là dal vetro

le indovino in seno un languore
dolce fino alle lacrime
umida carezza che tradisce
la vita, contro ogni evidenza del contrario

 

(Inedito)

Nanni Balestrini, Apologo dell’evaso

La massima della mia azione difforme,
infausto al popolo il fiume
che al cinema videro spopolare
il delta, i fertilissimi campi
e i più nocivi insetti (chiara
minaccia ai vizi dei governanti!)

Fra i pampini ovunque liberi
Testi poetici
galleggiavano, gonfi – e si fa vano
l’ufficio dello storicò. Ma saremo

a lungo preservati dal morso
del tafano azzurro, da iniezioni
di calciobromo, dall’unghie della zarina?

Lucenti strani corpi
violano il cielo; sbanda
il filo di formiche diagonale

nel cortile riemerso; ancora
il sole sorge dietro
la Punta Campanella incustodita

dai finanzieri corrotti e un argine
ultimo crolla. Lode
a un’estate di foco. S’io fossi

la piccola borghesia colata
nelle piazze fiorite e nei dì
di festa che salvi c’ignora

dalla droga e dalla noia per un po’
d’uva lavata in mare
presso la marcia catapulta; rifugiati

al primo tuono nelle gelaterie – chi fuggirei?
Passato il temporalaccio d’agosto
i graspi giungono a riva

fra i remi ai contrabbandieri salpati
nel novilunio e anzitutto conviene
(usciti dal vico cieco chiamammo

e orme erano ovunque
dell’abominevole uomo delle nevi)
fare l’amore intanto

che sui porti la Via Lattea dilata.
Il Po nasce dal Monviso;
nuvole… ma di ciò, altra volta.

Da I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di Alfredo Giuliani, Einaudi 3 ed. 1997)