Patrizia Vicinelli, Il cavaliere di Graal

Da un altro punto furono viste le stagioni
fino lì sconosciute
solo allora poté sedersi ad ammirare
il senso dell’alternanza.
Dalla sua radice gassosa ne muta
la base visibile
e lo cimenta la traiettoria
di notte e giorno la luce,
il cielo.
E’ fusa la donna alla sua ombra
eppure trema al fuoco dell’inizio
così se li sposta i suoi passi
Iside all’orizzonte meta
ora essa fugge la sua lontananza.
Perché non cola l’attesa profumata
ossia fermarsi
la sua ansia volta avrà la fine
di profilo porre cosa la tiene unita
quella che stacca la radice, un alito.
Batte allora come sul ferro la materia di sé
e lo plasma ogni angolo continuo
della vista
una distanza del suo centro esatta
la definisce.
I piani diversi del linguaggio
ne è avvolto
così genera le forme della sua ricerca
egli ha imparato come lasciarsi solcare
ad essere cinto dalle tracce.
Con un colpo d’occhio sentiva
la presenza simultanea di tutto ciò
che nella terra cresce
e questa coscienza della condizione attuale
lo aiutava come una disciplina.
Ciò che non è compiuto spinge
il modo del procedere,
meta, meta, arsi e riarsi,
durante la costa dei millenni.
Incessante se lo vide nascere e morire
il mondo fino a dove
non ci fu più tempo né abbastanza luce
per seguitare i paradossi demoniaci
sbalzato come dura pietra molle ora
nelle acque del fiume,
si agitava dentro pezzi di realtà dissimili.
Nel mentre cantano nel petto i volti
dei suoi sogni
muta al mattino in albe anche dorate,
quale certezza venga da mondi paralleli, attriti
posti sopra o sotto, vincolanti.
Scivolando lungamente sul fianco
della piramide atavica
lo blocca quando vuole come esercizio
e intanto la miseria dell’uomo
va consumata dentro di sé, nell’arca
del suo spazio interiore
intendeva infrangere ciò che da inadeguato
si ricompone ad ogni istante.
L’attrazione dinamica del fare mancò
a quel punto
e alla fine della danza più lunga,
l’abbandono e il silenzio
della grandiosa solitudine
lo rendeva eterno,
come collocato su di un punto raso
della terra, sotto le stelle.
Non era più chiamato in battaglia
da tanto tempo.
Il mio inizio è forse il solo inizio,
disse l’uomo assetato, e si sedette
a guardare l’evidenza del suo destino.
Il cavaliere che guarda la luna,
non cerca e non aspetta niente.
Beveva quel soffice vino d’agosto
e teneva la porta aperta
sulla laguna afosa della fine d’agosto,
musica in viole di quel tempo, vino di Graal.
Si chiedeva se non fosse una sua fantasia
mentre risa fendevano l’aria,
di giovani donne ubriache.
Arrossisce il suo silenzio il vino
e gli dà corpo
col respiro batte il ritmo della mente
nell’aria intatta
ora a cerchio lo sguardo la perdita lo svela,
un parallelepipedo di una battaglia navale
del settecento,
esatto d’ombre fatte di sfumature.
In settembre oltre la luce così bassa
e radente, c’è nebbia
e l’odore di funghi porcini annusati
a lungo, come nelle sere d’inverno.
La configurazione del male così conosciuta
era allora impalpabile, sembrava
non ci fosse traccia.
Intanto la luna al primo giorno calante
porge la notte in adagio,
la struttura tutto sommato
è tonda ora, poi cambierà.
Già pensa che il santo Graal è troppo lontano,
e il bicchiere si sta offuscando
di rosso, – qualsiasi cosa signore, ma
spingimi avanti – nuovamente il bicchiere
brilla rosso e la luna
fra gli alberi cade con la certa nebbia
fino ai pini, alle acacie, ma non i grilli
non i ragni, le libellule fino a ieri poi.
Non c’è arrivo non c’è sosta non
c’è partenza, ma il succedersi senza tregua.
Questo sì, che a ogni livello ne succeda
un altro, per generazione spontanea
l’aveva saputo della ruota che girava
mentre i mondi finivano, a volte.

 

(Da Ante Rem. Scritture di fine Novecento, a cura di Flavio Ermini,  Anterem Edizioni 1998)

Patrizia Vicinelli, Albero di Giuda

Bisognerà riscattarti, o nome dei nomi,
sei fra noi con altri nomi, e molti
fanno finta di non accorgersene.
Che mi importa del nome, se ad altri nomi
sei legato e ci imprigionano proprio come
ai vecchi tempi, tempo di faraoni, tempo
di faraoni, cosa cambiò, ohilà,
un bel giardino fatto da uno che conosco,
naturalmente non gliela fanno passare
liscia, ehi, friend, mi ricordo, era così
da un sacco di denominato tempo,
noi a picco sulle colline deserte ce la guardavamo
la luna, anche da certe soglie,
e chi lo può impedire all’uomo, di essere?
no, giuda neanche tu, col tuo malfamato nome,
esattamente il più povero, la tua grande pochezza
ora io la esalto e danneggiare gli altri
ma molto più di te stesso, se fosse mai vero
quello che i farisei riportano, come sempre fanno,
crederei anche ai giornali, e certo
agli speakers della televisione.
Eppure amico doloroso, io ti assumo, e te la
do la benedizione, il più negletto fra gli uomini,
che pessima sorte, oh Giuda!
Noi amici sulla terra amiamo la natura,
e raccontarci delle ultime avventure che sempre
trattano di vita, di vita calda e fuocosa.
Te la racconterò accanto all’albero,
che ti porta, qualche bella storia di ottimi
tradimenti, che portarono lontano,
che portarono lontano. Nel procedere è
assolutamente meglio una pessima sorte, tu lo sai,
così c’è qualche possibilità di essere gli uomini
che siamo, oppure è solo vento.
Giuda te la sei fatta pesa, te l’hanno
fatta pesa, ma c’è qualcuno, qualche vecchio
intenditore di talenti, qualche mago
che sa que pasò, all’ombra dello stesso
giardino di questa notte.

 

(Da Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano, Casa Editrice Le Lettere 2009)