Francesco Terzago, Non è qualcosa che abbia un’importanza

Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, considerare la torsione
degli astri che comprime la notte
ricordandoci il sottile discrimine
tra l’esistenza e la mancanza, l’ostensione
delle distanze cosmiche tra i radiofari.
Non è qualcosa che abbia un’importanza
secondaria, conoscere il nome delle piante
che mettono un balzo verde tra le discontinuità
del porfido, dell’asfalto. Se ci cerchi
l’osmanto o lo statice troverai la pratolina
e la mammola. Bisogna saper riconoscere
i segni premonitori di un rigido inverno e
tirare avanti, fare come i giardinieri planetari che,
anche se non li hai mai visti, non vengono meno
al loro dovere. Non sono degli spettri
quelli che pettinano l’erba del prato, nel parco pubblico,
quelli che la pareggiano eliminando ogni discontinuità.

 

(Da Caratteri, silloge autoprodotta 2016)

Francesco Terzago, Roma

Roma è dove tutti gli scrittori
sono di Roma e ogni persona
che incontri è uno scrittore di
Roma, un regista, ovvio, di Roma,
un critico affermato e puro;
fumettisti di Roma e artisti
di Roma. Che se lo chiedi a quelli
di Roma, la scuola Holden è Roma,
anche se sta su, a Torino. Tutto
finisce a Roma e parte da lì,
e pare che si debba andare, a
Roma, per godere dei benefici
dell’ambiente di Roma – sì, come
gli anziani che vanno alle terme
di Salsomaggiore. I velleitari,
a frotte, si trasferiscono a Roma;
così fanno sacrifici immani
per mantenersi a Roma o sono
ben mantenuti a Roma dai padri
benestanti e pensionati, dunque
in altre parole: pensare solo
che a Roma si possa conoscere
la gente che conta, la gente giusta,
e si debba fare gruppo, a Roma!
Il gruppo DI Roma, feste di Roma,
i reading di Roma con un pubblico
di venti persone ma paginone
sul Manifesto e la Repubblica
(di Roma), gran-successo, gran-successo
di Roma. Pensare che si pubblichi
solo con Roma, per Roma, in Roma.
Il porno, a Roma, è roba per gli
intellettuali, be’ lo si sdogani.
Si scrivono molti libri su Roma,
su altre città ma solo se poste
in relazione con lei, Roma.
Roma è come New York, ovvero
anche meglio di New York, che esiste
perché così si confronti con Roma.
Roma Zerocalcare, bravissimo.
Roma “La grande bellezza” dicendo,
allo stesso tempo ‘ma non è Roma’,
“La grande bellezza” non lo è proprio,
Roma “Amore tossico” che c’era
la Vicinelli: ‘un ca-po-la-vo-ro,
ca-po-la-vo-ro’, Caligari anche
lui di Roma, lo pensano anche i
sassi, (figurati, quale Lago Maggiore).
La Letteratura del Novecento
italiano l’hanno scritta a Roma
“Quer pasticciaccio brutto de via merulana”
infatti, Calvino non è poi tutto
sto che, perché non era di Roma.
E anche di Montale non ne possiamo
più, sebbene il Nobel lo consegnino,
a Roma. Roma è Berlino negli
anni ’80 ma meglio, il clima
è più mite e si parla l’inglese,
Roma non è per nulla teutonica;
Roma, ancora, la grande O di Roma.
Solo a Roma si studia, e solo
Roma è Internazionale, quindi,
con articoli di autori di Roma
o delle Fiji o dalle riserve
Sioux.

 

(Inedito)

Francesco Terzago, Il corriere è passato questo pomeriggio

Il corriere è passato questo pomeriggio. Ci vorranno
quattro giorni, ti dico al telefono, perché tutto sia da te.
A Shanghai la pelle del viso ti si screpola, il clima
è più secco che a Canton. Nel vano di carico, i tuoi
dodici colli vengono mischiati ad altri cento colli.
Cerco di tenere a mente quali siano quelli
che contengono le tue cose ma non ci riesco,
si confondono. È la tua vita, quella nei dodici colli
che si mischia ad altra vita. Divisa, per il momento,
dalla nostra vita. Bianchi erano bianchi, i nostri armadi
– ora sembrano di fredda pietra lunare, l’umida brezza
è arrivata dal balcone, si è posata sulle mie spalle
come una vecchia coperta. Se ne stanno nell’altra stanza,
uno affianco all’altro, ritti come menhir, i miei armadi,
la luce che tracima dalla finestra si spalma sul pavimento,
loro si sono messi sulle punte dei piedi ed è
per questa ragione che con le loro teste arrivano
a sfiorare il soffitto. Cerco di non andarci, di là, nella
stanza dei menhir, ho paura che vedendomi possano
prendere paura – perderebbero l’equilibrio, non voglio
che mi cadano addosso. Ho spostato il computer
in soggiorno, ora lavoro su quel tavolo dove
abbiamo cenato senza dirci altre parole che
buon appetito. – La porta che divide il soggiorno
dalla stanza dei menhir ha un sigillo di quiete. Eppure
se ora la spalancassi, d’improvviso, e raggiungessi uno
di quegli armadi – se io poi lo aprissi, senza tentennamenti,
chissà con quale maleficio, vi troverei dentro le tue cose,
nel disordine e nei colori caldi che contraddistinguo l’esistenza,
là come nelle giornate che hanno preceduto la tua partenza.
Sarebbero le stesse cose, io credo, ma non sarebbe la stessa vita.
L’odore dell’asfalto bagnato, l’odore dell’ultimo taxi
per l’aeroporto, per un momento, si alzerebbe davanti a me,
si dissolverebbe nelle lingue della mia memoria, su tutto
scenderebbe la stessa sonnolenza.

 

(Da Caratteri, silloge autoprodotta 2016)

Francesco Terzago, Vorrei dire, agli altri passeggeri che mi sono vicini

***

Vorrei dire, agli altri passeggeri che mi sono vicini,
che spettacolo, che gran spettacolo, quest’ala
che ondeggia al mio fianco, pare quasi che
il suo vertice sia una lama puntata alla giugulare
del crepuscolo, ma è un’illusione. Che spettacolo,
vorrei che lo sapessero ma alcuni di loro
stanno rimettendo, altri stanno soffocando
il finestrino con una coperta viola. Qualcuno
se ne sta con gli occhi chiusi, fingendo
di dormire e allora me ne sto zitto a contemplare
l’ala. Mi accorgo che è simile al corpo flessuoso
di un pesce gatto, un pesce gatto che stia
risalendo la pigra corrente di un canale di irrigazione,
è un morbido movimento, una lenta esse.
Da una buona mezzora il nostro aereo è scosso
in ogni direzione. Tutto è cominciato non appena
abbiamo concluso il pasto: noodle con piselli
e cubetti rosa di carne di maiale. Ho sempre trovato
curioso il fatto che le compagnie aeree cinesi
distribuiscano queste grigie posate di plastica –
d’altronde sarebbe una scena poco edificante
una baruffa ad alta quota che veda i suoi contendenti
brandire bacchette lunghe come spilloni. L’aereo
sul quale sto viaggiando, per un istante, affonda.
Ora, un istante dopo, è più giù di alcune decine
di metri (centinaia?), un altro istante, ancora affonda.
È quasi come se questa nostra esistenza avesse
lasciato la presa, avesse ritratto, delle due,
la sua mano munifica. Il vuoto d’aria. Il vuoto d’aria
è un silenzio che si diffonde lungo tutta la cabina,
che scende come un balsamo bianco e ci segna
la fronte; anche il ragazzino, tre file avanti a me,
ha smesso di parlottare con sua madre e di fare
i capricci per avere il tè. Ognuno dei passeggeri
stipati con me in questa siringa di metallo, nell’aereo
della Shanghai Airlines, meraviglioso esemplare
di Boeing 767, sta pensando che il senso di ogni cosa
stia in quel segreto che risponde al nome di ‘peso’
– mentre cadiamo ci pare di non averne più, sentiamo
qualsiasi cosa dentro il nostro corpo diffondersi
e rivoltarsi. Quando, alcuni secondi più tardi
l’aereo riprende quota, so per certo che ognuno
di noi si sta sentendo gonfio d’elettricità. Sono
gonfio di elettricità, sono un rospo elettrico.
Sudo elettricità. Ho invocato, con le mie preghiere
il dio benigno dell’alluminio e ora mi sento gonfio
di elettricità. Ala, ala mia – flessuosa come il corpo
di un pesce gatto, te ne prego, ala che stai
sempre al mio fianco, che sei tutta attorno a me. Ala
che raggiungi l’orizzonte, che buchi l’orizzonte,
che lo fondi, che lo pieghi e che lo intrecci
in un canestro di scie di condensazione… ala, flessuosa
come il corpo di un pesce gatto. Una forza,
frankensteiniana, aveva consegnato all’ala una vita
apparente. Come se lei fosse divenuta, per un poco,
carne e lega metallica. Uomo e macchina
nel medesimo istante, nel medesimo luogo,
l’ala fu tutt’attorno a noi e noi fummo lei, trascesi
alle giunture metalliche, ai cilindri idraulici,
ai flap, agli slat e agli spoiler – ogni bullone,
ogni singolo bullone, sino al carburante, pompato
nelle turbine come sangue, e ai bluastri
circuiti elettrici. E fu forse troppo facile, in quei
minuti euforici, dimenticare che c’era un altro mondo
in attesa, al disotto delle sconvolgenti nubi, un mondo
spaventoso e amato. C’era l’ala, il tintinnio
della carlinga, i motori sagomati dalla velocità, c’erano
le nubi ribollenti come quando, nella torrida estate,
uscimmo dimenticandoci il pane a lievitare. Quando
la sera tornammo una massa ribollente aveva inondato
il tavolaccio dandoci prova del fatto che la vita
non è, sola, un principio – è il mutamento.

 

da Poeti della lontananza (a cura di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Marco Saya Editore, 2014)