Dai dodici ai quattordici anni
circa
io scrivevo poesie:
una ogni giorno,
anche se a volte
tornavo sulla stessa per limarla
(allora non dicevo
“limarla”: dicevo “migliorarla”
o “finirla”,
cominciando a intuire
che forse non l’avrei finita mai.
Invece la finivo).
E quando mi sentivo soddisfatta
o comunque convinta
che una parola in più l’avrebbe rovinata
la mettevo in un fustino usato
di detersivo, che avevo rivestito
con carta a fiori gialla, rosa e rossa.
Era orrendo.
Poi, quando si riempiva
fino a toccare l’orlo, le premevo
con tutte le mie forze
e sempre c’era spazio
per una nuova.
Scrivevo a mano
su fogli di quaderno
che strappavo, alla fine
della poesia.
E così per due anni,
circa,
vacanze a parte.
Un giorno uscii di casa
come ogni giorno, per andare a scuola,
e quando ritornai
trovai il fustino vuoto.
“Sembravano cartacce, non sapevo
che ci tenessi tanto. Erano fogli
stracciati, stropicciati”– ed era vero –
“ero sicura
che fossero cartacce”,
disse mia madre.
Non ho voluto credere
che fosse stata lei: perciò, vigliacca,
addossai ogni colpa a una donna
che ci aiutava in casa
e se ne andava.
Io ero disperata.
A ripensarci erano tremende:
parlavano d’amore
a nessuno,
con parole sbagliate e ricercate.
Me ne ricordo una.
Non la saprete mai.
Da allora
ogni volta che scrivo io riscrivo.
(Inedito)