Francesca Del Moro, Dicono noi dobbiamo

Dicono noi dobbiamo
e tu non capisci
non sai chi noi siamo
in questi spazi invasi
dal discorde tam tam
lo sbattere dei piedi
sulla propria mattonella.
La rivolta neanche a parole
che si è così presi
a spezzare il verbo in quattro
a umiliarne il valore.
Non sai chi noi siamo
tra tutte le pagliuzze
da cercarsi negli occhi
le mille dita puntate
le mitragliate a salve.
Non sai chi noi siamo
tra gli o tempora o mores
con il dorso del polso
languido sulla fronte
la schiena che s’inarca
e trova breve sollievo
per poi piegarsi al padrone.

(Gli Obbedienti, Cicorivolta Edizioni 2016)

Lucianna Argentino, Madre

Non occorre aver detto di sì al male

per esserne posseduto. Mentre il bene

prende l’anima solo quando essa è consenziente.

(Simone Weil)

 

La sento, sai la sento la forza che ci plasma

plasmare te nel mio utero

fatto di nuovo nido, fatto culla d’acqua

e tu, grappolo di vita, mora succosa,

aggrappato alla mia carne

fatta falda di sangue per le tue radici. Radice io pure

eppure io albero da frutto, ponte da te edificato

dalla tua voce chimica inturgidita.

In me ti seppellisci, in me sprofondi

e  mi faccio pasto, focaccia

per il tuo crescermi negli abiti, nei cromosomi,

per il tuo somigliare a tutti  quelli della tua misura.

E tu fai me fuori misura, me donna sempre in fuori uscita,

in spargimento di qua da te,

a prepararti un nome, a scavarti un luogo.

 

Quando ero bambina, di notte, dal mio letto,

vedevo gli uccelli che decoravano la sommità dell’armadio

animarsi, prendere vita. Li vedevo allungare le ali

quasi  volessero sgranchirsi dall’immobilità,

prima di spiccare il volo e venirmi contro minacciosi.

Allora mi rannicchiavo sotto le coperte,

chiudevo gli occhi perché sapevo

che era il mio sguardo a dargli il movimento,

sapevo che era la paura rimasta nascosta

durante tutto il giorno che sgattaiolava fuori

e tutta si radunava sotto le ciglia.

 

Radunata io tutta attorno a te, attorno a te coagulata.

Io e te adiacenti, legati dalle scorribande del sangue,

dalla gioia di farti uomo e di rifarmi tu bambina

ché senza età è il mio esserti madre,

materia docile al tuo volermi madre in biologia e in amore.

Amore il primo, amore del sì detto in tremore

il sì che nella esse striscia, scorre basso col peso del dubbio

nella i poi s’innalza, veste le ali e incede verso l’infinito incanto.

E sento sai che sempre c’è un angelo

che senza domandare attende una risposta.

E sì lo dico, lo dico ancora per la terza volta,

perché mi hai scelta, perché mi ridici madre un’altra volta.

 

E’ il mestiere che gli entra in corpo,

dicono gli operai e i contadini

quando un apprendista si ferisce

o ha male ai muscoli. Come se solo

attraverso il dolore si possa davvero imparare,

come se solo il dolore possa darci la competenza delle cose.

Ma è già mio il mestiere di madre

e allora perché in me qualcosa duole?

e non è come quando da bambina mi ammalavo

e mia madre teneva la stanza in penombra

e mi portava bamboline con abiti di carta da ritagliare.

E io abitavo il male come una pausa, una vacanza,

giocavo con la me riflessa nello specchio grande,

fingevo fosse un’altra con cui parlavo,

a cui raccontavo lo stupore di essere viva.

 

Non siamo soli sai, altro ci insidia

in proliferazione di cellule cattive…

Mi penetra, mi assedia, mi fa contesa da due forze,

io come tutti già contesa, già nella terra di mezzo

e questa che mi lotta dentro

è divisione, è faida, è guerra fratricida

e io ne sono il campo, la città

messa a ferro e fuoco e devastata.

Ma lì dove sei tu è pace e forse solo un battito attutito

ti arriva del mio inquieto e doloroso stare.

Da te è sciabordio d’acqua, è un parlarci

la lingua degli ormoni e dei sogni.

 

Ho sognato che allattavo un’aquila

e dolce e intimo era lo sguardo da creatura a creatura.

Al risveglio ho pensato ad Anna quando mi dice

che siamo qui per mettere le ali

e ho compreso che tu sei insieme il mio volo

nel cielo altissimo delle schiere degli angeli

e il mio tenero approdo

nel ventre terreno dell’amore.

 

Potrei salvarmi, io al disotto delle dighe,

forare la sacca d’acqua tua che ora hai un nome difficile da dire

tu da me disinnescato per mistero di concepimento.

Ma per il male no, non c’è rigetto,

è abile, è forte in me fatta nutrice di vita e di morte.

Quale salvezza allora? Dovrei reciderti per non morire

e poi recisa andare in giorni senza vita.

Perdonali perché non sanno che sei tu a tenermi stretta,

che apri per me la porta al sacro.

Tu vienimi in soccorso lungo i confini della mia paura,

tienimi sul bordo a lato del solco dell’aratura,

là dove i ciuffi d’erba vegliano la buona riuscita del raccolto.

E non cedo sai, non guardo le impronte dei miei passi.

Lego il mio ventre alle onde quiete del lago, al volo alto degli uccelli,

a questo tempo che ha la grazia di un dono,

al nero dei suoi occhi carichi di alfabeti,

alle sue mani piazza e radura, ristoro alla mia stanchezza.

Lo lego a te che mi stai tra la pelle e l’anima perché il vero e il bello

non stanno nel fondo delle cose, ma traboccano

nel più che sarà dato a coloro che nella vita hanno tracimato.

 

Piove. Da due giorni ormai.

Da ragazzina una volta, era d’estate,

durante un acquazzone me ne restai immobile

a piedi nudi sotto la pioggia, il viso rivolto verso il cielo.

Volevo provare cosa prova un albero

quando la pioggia lo sferza. Non fu facile

perché le gocce che mi picchiettavano addosso

mi provocarono una miriade di sensazioni

che non riuscii a far tacere. E chissà cosa prova l’albero

che qui fuori vedo invecchiare. E’ qui da prima

che io nascessi e di stagione in stagione

le sue foglie si fanno più rade, opache,

alcune sono rosse come piaghe da decubito.

Ho pena per lui. Sembra che persino il vento lo eviti

e che nemmeno più gli uccelli nidifichino o si posino tra i suoi rami.

Ne stanno lontani, come a non volerlo disturbare

o per quel timore o forse ribrezzo che suscitano i moribondi.

 

Un altro sì mi attende e in me lo attendo,

mentre mi fa incredula e diversa

a tutto persa tranne che a te. Doppiamente gravida

che pure il male in me nasce e cresce

ma tu della mia vita piena sei il frutto amato

e solo e sempre questo ti scorra nelle vene

e solo e sempre questo ti sia nello scorrere degli anni.

Io fatta terra di parole giovani

io con la scure alla radice, io tralcio in potatura.

Scardinata e battuta dai venti,

sola nell’approssimarsi dell’indicibile

sola in un tempo inconciliabile.

Davanti a me sta la vita, è lei ad interrogarmi

a chiedermi cos’è la verità,

questa che mi penetra e possiede, questa che mi fa  fedele.

E loro già lo sanno che ancora un poco e poi non mi vedranno…

ma tu dì soltanto una parola. Una parola.

Nell’ora del mio Getsemani,

veglio perché le veglie delle madri fanno le notti assolate.

Tu dì soltanto una parola…

Eterna e ordinata, facile da dire,

facile da obbedire. Ché questa mi fa scandalo,

incrocio tra fede e bestemmia, bivio dove vita e morte

vanno alla rivelazione lievi e leggere senza il peso dei “Perché?”

Cadute sono tutte le domande. Depongo la voce e rispondo.

 

Amo il lago. Amo la sua calma profondità,

la sua quieta immobilità, il suo volto sereno

che nulla riesce a turbare,

appena increspato dal vento,

dalla vita che ci scorre sopra.

Amo il lago che mi ha insegnato a navigare a vista.

E tu in me nell’acqua nuova navighi

verso questa sponda che a me si fa lontana

e un’altra sconosciuta m’attrae sulla sua rotta.

Amo il lago. Mi somiglia. Apparentemente calmo,

calma io mentre nel fondo mi vive un mare in tempesta. 

 

Di lui le mani e le braccia, di lui le labbra e il respiro

di lui gli occhi e il silenzio, di lui l’odore e il calore

di lui il corpo e il cuore davanti a me, dentro di me

nuda e disfatta mentre ti faccio uomo prossimo e futuro.

Di lui la forza e il consenso, di lui la cura e l’attenzione

di lui il dolore e il sorriso,

di lui l’essermi in quest’ora un poco padre.

 

Conosco il suo nome dolce d’aggettivo

eppure scuro, nero, germe infettivo.

So la strada su cui avanza i suoi passi acuminati

nella mia carne vulnerabile, il suo volto,

il suo sguardo guasto in cui non mi rifletto.

So il vuoto che mi scava attorno

l’aspro suo respiro, lo spazio che rende brulla la distanza,

ma la spiano perché in me non c’è resa, né cedimento.

Sto salda nell’amore e se l’amore fa degna

e bella la vita più bella e degna ancora farà la morte.

 

In pieghe d’anni, in avidità di avi vissuti in me

che non invecchio su questa strada sbarrata,

dove le cose, tuttavia, fanno largo ai miei passi.

E mi alzo e vado e al buio sto ferma, li ascolto respirare

e m’acquieta la fragranza di vita appena fatta,

il fiato croccante dell’infanzia. Se ne nutre questa vita mia

in caduta, in mutamento, nel giusto del timore

a dare il mio consenso perché sia fatto santo tutto il tempo.

Appartata e raccolta, senza rimedio né miracolo

perché s’è già compiuto, perché lo credo sai lo penso

in fondo è piccolo l’immenso.

 

Stamattina sedevo presso la finestra e guardavo fuori,

senza pensieri. Il cielo era coperto,

ma poi da dietro una nuvola è spuntato il sole.

Ho chiuso gli occhi e ho sentito

la luce fendere il buio, il calore colarmi sulla pelle

come una carezza, scrosciarmi dentro

e sussurrarmi: “sei viva sei viva”,

mentre un vento leggero traduceva per me il silenzio delle cose.

 

Ti partorisco in misericordia, nel luogo degli opposti

nel nove difettivo a dirci in perfezione

e tu mi partorisci nel coraggio di vedere più chiaro

sotto la luce radente del mio volerti qui mentre mi congedo

e vado via a passi ritrosi che mi sembrava non finito

il mio compito terreno e invece no, forse è questo il limite

e altro ancora e di più non posso.

 

Comprendo che tu puoi tutto

e che nessun progetto per te è impossibile.

Chi è colui che da ignorante,

può oscurare il tuo piano?” (1)

Non c’è ragione, non c’è giustificazione

ma c’è tanta gioia in questo dolore

progetto d’amore oscuro alla mente

luminoso al cuore. Mi spoglia dell’umano,

me che terrena ancora vorrei essere

per loro di cui avrò altro sapere

e anni ancora vorrei per la vicinanza delle mani

per il loro crescere ricco e buono

con una radice nella terra e una radice nel cielo.

Ora basta. Ho riempito le mie giare d’acqua

fino all’orlo. “Ora pensiamo alla cena”.(2)

 

Tu  figlio bello e benedetto,

figlio dell’obbedienza alla legge che regola l’umano.

Tu nato al mio principio di vita nuova

al mio transito in un silenzio leggero verso la parola giusta,

tu mia ultima parola, mio tutto è compiuto

perché nessuno ha amore più grande di questo:

dare la vita per i propri amici.

E’ questo il canto che vi lascio, la fede che rammenda lo strappo

perché mai e poi mai sentiate l’abbandono

ma solo e sempre l’abbondanza del dono.

 

A molti l’ho taciuto.

Per pudore. Per paura che possano farmi vacillare,

che mi puntino addosso i loro sguardi polverosi

e come potrei spiegare quello che sento, che vivo?

Il mistero che mi sta davanti e mi risucchia tutta l’esistenza.

Come potrei far capire loro che è un miracolo

questo che accade e questo in cui siamo dentro tutti,

che l’intera vita è gestazione e la morte è parto mistico?

Madre morte che ci partorisce in tutti i nomi dell’aldilà.

 

Le curve dolci dei colli regolano il mio respiro,

stanno attente al corso di me donna in doppia fioritura,

a poco a poco dis-detta dalla vita. Detta altrove, detta nella cesura

in sopravanzo di dizione, già in trasparenza,

in dissolvenza, già sulla soglia dell’assenza. Io fortemente soglia

e come sento estraneo il corpo, ma non peso, né sostanza densa

ma solo ciò che mi fa passo, prossima al rimpatrio,

ancora un poco chiusa nel pugno del tempo in attesa che s’apra

all’eterno. Io viva e dischiusa, io finalmente

all’aperto!

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(1)  Giobbe 42,1-4

(2) Iliade XXIV v. 601

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(poemetto inedito)

Silvia Molesini, Vi hanno fatti che mancate di sguardo

Si vedono i migliori:
nottetempo sei riuscito a scappare
tu, giugno di breve poesia
allora loro ti colgono e
sento già i vari anticonform
chiedono “chi sono i migliori”?
lo chiedono a me! Vecchia porta socchiusa
come non lo sapessi che è una bella invenzione
come se non avessi visto il gatto mammone
fuori dalla porta del bar.
Circonfusi ad ideali bislacchi
signori del nuovo come nuovi santi
ah! e senza rispetto poi
attraversate le strade di tutti
solo avete vent’anni
e tutto il loro sudore
solo avete vent’anni
e non li vorrei riavere.
Ma ridatemi invece
vecchionamente balbetto
che vent’anni sono buoni a rimanere coraggio
e vent’anni sono buoni a percorrere testardamente
cose distrutte by way e rinnovare strade
gruppi corrosivi per la musica per l’âme
ah! ma se m’ero inventata il mondo prima
com’è che adesso me lo ritrovo addosso
smessa gabbia per polli, anticamera, solaio
com’è che adesso tutto sibila
e le vecchie paure sono fuori dalla
porta del bar?
Abbiamo fatto notte
dice Cenerentola scalzata
e dice bene lei, principessa meraviglia,
assiepata, assiepante totale
ha visto montagne ridursi a mollicine
e ha visto navi che partono la notte
con carico pesante di ferrimmenso furore
spargersi molle ad inquinare ascelle
modi-gente, lo capite scemi?
Lo capite, cazzo, che il mondo è la gente?
Che cambiate a sputare addosso
continuamente
senza provare un arrangiamento di rime
del vostro veleno bieco abbiamo fogne piene
s’assiema a tutti gli altri
ci incatena ci agglutina ci unge
uccelli impetroliati che siamo
e invece sguardi oltre
porterebbero mira/coli possibili
scrollatevi i vent’anni di dosso
basta ingurgitare fantamusica
vi hanno fatti che mancate di sguardo
accatastati in momenti qualunque
anticosmici
provate a resuscitare significati
provate ad intendere
che quelle coésie malvage
le abbiamo scritte noi,
i peggiori. Prima.

 

(Da Lezioni di vuoto, Liberodiscrivere Edizioni 2006)

 

Andrea Donaera, La terrazza. Un’esalazione. (6)

6.

Solo quando poi era il momento dei regali, e quando poi era il momento del
Bambinello, e quando poi era il momento dei botti, era tutto un da farsi, noi
eravamo in qualche modo uniti, urlanti noi, le urla delle nostre madri, le urla
dei nostri padri per parlarsi tra le nostre urla, anche durante il Bambinello,
le nostri madri, le voci all’improvviso bianche, urlavano in canto preghiere,
i nostri padri continuavano a parlare, facevano la croce quando tutto finiva,
noi facevamo la croce decine di volte al giorno, quando tutto iniziava, sempre
la croce, quando tutto finiva, la croce, prima dei regali, dopo i regali, quando
era pronto, prima di tornare alla vita lontani dalla tavola, quella volta uno dei
nostri padri, gonfio di grappa, prese per il collo forse il più grande, forse, lo
prese per il collo con la mano sinistra, gli diede uno schiaffo con l’altra mano
e per giorni, poi, era il Ventiquattro, fino all’Uno ancora il segno delle dita,
noi eravamo uniti e sorpresi, si vedevano tutte e cinque, ma perché, i segni,
perché, le nostre madri e gli altri nostri padri se lo chiedevano, perché lo
schiaffo, noi non ce lo chiedevamo, non lo abbiamo mai saputo, ridevamo
inorriditi, contando le cinque dita sulla guancia, provando anche noi, su noi
lasciarci il segno sulla guancia, in qualche modo uniti, l’Uno eravamo tutti
rossi di schiaffi, il più bravo aveva lasciato bene le dita, ridevamo inorriditi.

 

(Da La terrazza. Un’esalazione. Silloge inedita)

Dario Zumkeller, Il paradigma della Distopia

Perché siamo dannati nel fecaloma
dove anche i gabbiani di notte non dormono più.
Ma io non sono muto ai loro versi
per dire all’accusatore
che di noi, residui clastici, sia fatta la calce del carceriere.

(Da La calce di Ulkrum, Edizioni La Parola Abitata, Napoli 2016)

Manuel Paolino, Con il mio amore con un amore in grembo

Εἰμὶ δ’ἐγὼ θεράπων μὲν Ἐνυαλίοιο ἄνακτος
καὶ Μουσέων ἐρατὸν δῶρον ἐπιστάμενος.

Finché non ti vedrò correre con un
ramoscello di mirto e un bel fiore di rosa
non ti chiederò di custodire il mio
Archilocheion.

Per te che nascerai.
Ho visto le montagne del Parnaso aprire
gli occhi dalle strane forme d’acqua e
galleggiare riempiendo valli strette tra
l’oro scuro; ho sentito lo sbattere bruno
lucente echeggiare dal passato fra quei
colossi; e il sangue d’una capra ricoprire
l’aria di una piccola tenuta poi, le vesti
d’una donna vibrare s’una collina intera.
Mille sogni che si mischiano insieme
come in un boccale di Nestore, fulminei
compaiono nel mio animo quando in un
lembo libero di spiaggia calpesto pietre
antiche, sopra le quali tra i flutti, vivono
ancora le memorie di tutti gli eroi, degli
opliti, e le gocce – di sudore e lacrime –
dei rematori e delle donne d’Atene.

Baie racchiuse in un cratere di vento,
che si presenta al corpo senza nessun
permesso; costante lui non cede, né
infastidisce la sua spinta ch’appare
sempre una carezza e mai uno schiaffo;
eppure accende tra le sue vene correndo
privo d’incertezza la melodia delle glorie,
e dei suoi giochi, comandati dagli dei.
Sono passato per le strade di Atene con
nascosto il viso dal mio elmo, stretto alla
mano del mio amore con un amore in
grembo tra il mercato dove l’oro diviene
aria fino al copricapo roccioso di Ares
sotto il tempio, dove per due volte sono
morto e poi rinato; dove nel tuo Caos il
sole e la polvere sono arrivate insieme.

(Da L’idromele Parte SecondaNuove Poesie – Mortali e dei, in uscita editoriale l’anno prossimo)

 

Stefano Iori, Sgorga un coro

Sgorga un coro
dal profondo
pieno e potente
ma d’un colpo tace

C’è musica di festa
che vien dal mondo
e poi si smorza
in rivoli di silenzio
taglienti come lame
d’antico macellaio

Il solfeggio dell’anima
ha identico destino
sempiterno essere
infinito morire

Doppio spartito
per voce singolare

(Da Lascia la tua terra – Sinfonia del congedo, Fara Editore 2017)

Stefania Di Lino, [ho scritto una storia a lieto fine]

[ho scritto una storia a lieto fine]

si girava nel fuoco delle parole / per bruciarne i lacci / ed era allora / un’altra facoltà dell’esistere / c’eravamo salvati / seppure un po’ feriti / c’eravamo salvati / da colpi bassi e da sguardi abrasivi / da veleni nascosti in lingue bifide / e da pensieri lavorati male / per mancanza di materia prima / io chiusi in ogni caso il cerchio / /

[lo chiusi perché era tempo]//

cambiai osservatorio e postura / stesa sul prato / al lato delle fragole  / osservavo il buio e parlavo al vento /[e c’eri tu che cercavi la mia mano / e c’eri tu che mi premevi sul ventre]/ e poi buio e silenzio / in un tempo disteso e senza clausole / stretti nell’abbraccio / finalmente interi /ad osservare il passaggio delle lucciole

 

(inedito)

Dario Falconi, Aleph Privativo

Privo di senso
il senso della privazione
privato del pubblico
pubblico del privato

nostalgia
ressa dei conti
abbandonàti a me

Steso

leggo Borges
ieri è un altro giorno
non si vedrà

(Da Delirica, silloge inedita)

Edoardo Penoncini, Non Cercarmi

a E.N

Non cercarmi con qualche vecchia lettera,
alla tua libera interpretazione
che suscita sconcerto o ammirazione
lascia che l’arco schiuda un altro giorno.
sull’albero stele dei nostri giorni
non hanno più vita nomi e ricordi,
solo frammenti del sacro rituale
nel suono a festa di un’altra campana.
Cercami forse là, dove la folgore
ha bruciato il faggio e scortica terra
il torrente o lasciami alla mia terra
con le farfalle dell’ultima sera

 

(Da Vicus Felix et Nunc Infelix – La luce dell’ultima casa, Al.Ce. Editore 2015)