Fabrizio Morlando, Chi-odi

Alla fine si soccombe.
L’albero è morto e l’albero
sarà abbattuto.
Non più guinzagli né stretti lazzi.
Ma gettati nei mille assortimenti
del dolore. Mentre ancora si
impilano parole che sanno
di truffa. Che spingono l’ago
nella carne del giorno. In fondo.
Dove niente fa più male.
Coraggio, è già tutto passato.

E la morte non sappiamo più cosa sia.

(Inedito)

Fabrizio Morlando, Assolto con formula vuota

Assolto con formula vuota:
leggerezza ribelle,
immagine e visione allo zero assoluto,
serbatoi colmi di colpe a buon prezzo.
Mani legate a punto croce.
C’è del romantico nello sparpagliare carte
sul tavolo, dare nomi nuovi a cose vecchie,
una mano di bianco su pensieri diroccati,
calchi di gesso dentro la bocca. 
È così commovente in fondo
perdere e tentare
di riacciuffare il tempo
nella danza claudicante del mondo.

(Inedito)

Fabrizio Morlando, Si dona la vita

Si dona la vita e si dona sconforto,
talvolta un guado, sigillato
nell’ambra gialla del tempo:
comici, inefficaci, incolpevoli
rappezzi di cielo.

(Inedito)

Fabrizio Morlando, Come balene spiaggiate

Una volta ci voleva regalare un bel cucciolo di cancro lo zio
che stava di casa vicino a quella topaia chimica in culo alla città,
diceva che tanto lui ce ne aveva un allevamento intero
e che si riproducevano come conigli infoiati che non sapeva
più dove diavolo metterli, che era costretto a darne qualcuno via,
noi a casa mia non ne prendemmo neanche uno e che tristezza e che pena,
papà diceva che un piccolo tumore in appartamento soffre,
che poi non ci mette niente a crescere e diventare grande e grosso,
perché quel tumorino paffutello era di quella razza che si fanno grossi così,
di taglia grande e quindi quattro mura non potevano far altro che soffocarlo,
che c‟avrebbe avuto bisogno di sgambettare indisturbato
e no di prendere il thè alle cinque con i pasticcini all‟arancia
e marmellate ai frutti di bosco, che poi quanto costa tenerlo su bene,
dottori e medicine per tenergli il pelo lucido e le vaccinazioni poi,
non abbiamo tempo noi e la passeggiata serale
con annessa pisciatina rigenerante, Dio mio,
ricordo che lo zio ci rimase molto male per „sta cosa, non si riprese più,
s‟era fatto bianco bianco e se ne stava con lo sguardo a fissare il vuoto,
fermo immobile nel suo letto e tutt‟attorno i suoi adorati tumorini
a tenergli compagnia, non posso proprio togliermelo dalla testa,
sbucarono parenti da ogni dove, ne trovavi dovunque:
nei cassetti per esempio, tra i calzini coi rattoppi e le mutande ascellari,
altri in frigo al posto delle uova, nella dispensa,
qualcuno nel cesso ci s‟era lanciato con un tuffo con avvitamento
coefficiente di difficoltà novepuntocinque, tantissima gente tutta per lo zio,
qualcuno tanto che era contento di stare in sua compagnia che
addirittura piangeva commosso, io pensavo “quant‟è bella sta famiglia unita
con tutto sto Bostik-affetto” quando mi si avvicinò mamma e mi fece:
“Ora tu sei grande e puoi capire, lo zio ci ha una brutta cosa”
che io rimasi lì su due piedi che altrimenti sarei stato una gru,
perplesso come non mai, me ne andai al cesso ad elaborare il lutto.
Come balene spiaggiate, ecco come ci sentivamo tutti.

 

(Da Caramelle dagli sconosciuti, LietoColle 2017)

Fabrizio Morlando, Juggernaut

E già, alla fine tutti i buoni propositi,
le geniali sentenze si schiantano dal cielo al suolo,
colpo su colpo, in mille concretissimi sogni,
sogni di puzzle, sogni a pezzi che al risveglio dimentico,
astri (s)cadenti, bocconi di carne esistenziale
a combattere corpo a corpo lo stesso orribile
vecchio Vietnam d‟incomprensione,
a denti stretti stesse lotte, le stesse pallottole
che entrano ed escono dalla testa
dei nostri Hemingway, dei nostri Cobain,
dei nostri pazzi tristi di sbornie tristi,
oh Gesù Cristo, non riesco a dimenticarvi,
non posso lasciare questo cuore
intasato bastardo di buio,
“rimettiti le scarpe, porta fuori il Silenzio
a balbettare alla luna, finché c’è tempo.”

 

(Da Caramelle dagli sconosciuti, LietoColle 2017)

Fabrizio Morlando, I buttati via

Anche dentro il corpo la tenebra è profonda,
e tuttavia il sangue arriva al cuore, il cervello
è cieco e può vedere, è sordo e sente, non ha
mani e afferra, l’uomo è chiaro, è il labirinto
di se stesso.
Josè Saramago

Dopotutto ci si stanca presto della propria faccia.
Si fa il vuoto attorno a sé, lasciando alla luce segreti,
parole mozze, labirinti espropriati da qualsivoglia Minotauri.
Se solo all’occorrenza ci si potesse dimenticare di se stessi,
di quello che si è vissuto, cavarsi gli occhi con cui si è veduto,
una tregua nell’esistenza convulsa.

 

(Da Caramelle dagli sconosciuti, LietoColle 2017)