Eugenio Montale, Ciò che di me sapeste

Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.
Ed era forse oltre il telo
l’azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.
O vero c’era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d’un’ignita
zolla che mai vedrò.
Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l’ignoranza.
Se un’ombra scorgete, non è
un’ombra – ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.

(Da Ossi di seppia, Einaudi 1925)

Silvia Bre, Non è l’anniversario di un’assenza

Non è l’anniversario di un’assenza –
è che ti trovo qui nei miei pensieri
come un custode fermo sulla porta
che dà sul mondo e sugli ingressi scuri,
con l’aria di chi ascolta una parola.
Noi ti pensiamo.
Andartene fu un ordine severo
al quale continuiamo ad obbedire –
siamo rimasti qui dove ogni tanto
si nomina il tuo nome,
dove hai lasciato a respirare i versi:
stiamo al tuo posto – eredi di una sedia –
tra le cose. Ancora non sappiamo
quale male fu tuo che non è nostro.

(Da Le barricate misteriose, Einaudi 2001)

Silvia Bre, Ognuno vuole avere il suo dolore

Ognuno vuole avere il suo dolore
e dargli un corpo, una sembianza, un letto,
e maledirlo nel buio delle notti,
portarlo su di sé tenacemente
perché si veda come una bandiera,
come la spada che regala forze.
Ma c’è persa nell’aria della vita
un’altra fede, un dovere diverso
che non sopporta d’esser nominato
e tocca solamente a chi lo prova.
È questo. È rimanere
qui a sentire come adesso
l’onda che sale nelle nostre menti,
le stringe insieme in un respiro solo
come fosse per sempre,
e le abbandona.
Ma nemmeno la pupilla d’un cieco
dimentica l’azzurro che non vede.

Da Marmo, Einaudi 2007)

Giovanna Rosadini, Respiro nel respiro

Respiro nel respiro, ascolto la notte.
Ombre lunghe tendono abbracci,
invitano a proseguire oltre la siepe
sul confine dello sguardo. Accade,
ancora, di ritrovarsi nudi, esposti.
Restare allora nella notte, accogliere
la sua lusinga è un balsamo per chi
non lascia tempo alla paura, tenebra
è una parola che risolve e cura.


(Da Fioriture capovolte, Einaudi 2018)

Franco Loi, La gàbia del leun

La gàbia del leun l’era de aria,
de aria la mia mama, quèl cappell,
el brasc del mè papà l’era de aria
sü la mia spalla, i mè man che streng,
e aria el rìd di öcc e duls de aria
de quèla vita ch’ù insugnȃ, l’azerb.
Eren de aria lur, e mì, chissà,
che sun stȃ, fermu a vardàj andà.

*

La gabbia del leone era di aria,
di aria la mia mamma, quel cappello,
il braccio di mio padre era di aria
sulla mia spalla, le mie mani che stringono,
e aria il ridere degli occhi e dolce d’aria
di quella vita di cui ho sognato l’acerbo.
Erano d’aria loro, e io, chissà,
che sono stato fermo a guardarli andare.

(Da L’aria, Einaudi 1981)

Chandra Livia Candiani, a L. V.

a L.V.

Perché non c’è pericolo
nel tuo amore
che ci espone alla nuda
luce,
perché la conoscenza è radicale vigilia
dell’altro
e chiede: “Dove sei?
“Dove vivi?”
“Cosa tocchi?”
Perché ogni opera non è
che gratitudine.
Perché è un luogo spazzato
e solo
il luogo delle interrogazioni,
perché distilla uno strumento
sufficientemente delicato
per non spaventare la nostra
carne umana
che trema ai soffi
e alle voci e resiste
ai bisturi.
Perché è ancora tutto
da dire
e insieme
già tutto detto,
perché sappiamo insieme
e l’universo è tutto
tutto abitato
mirabilmente.

(Da La bambina pugile, Einaudi 2014)

Franco Fortini, Traducendo Brecht

Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

(Da Una volta per sempre, Einaudi 1978)

Silvia Bre, Vedevo uno che ha smesso di sapere

Vedevo uno che ha smesso di sapere
seduto verso il mare, nel silenzio:
una forma dell’aria, un’onda pura
partita da un secolo qualunque.
Eravamo nella stanza nella stessa luce,
nell’ombra – io, come si dice, viva
lui creatura del giapponese che lo dipinse.
Parlavo mi pare del bene che faceva
quel suo covare di schiena l’orizzonte
e la mia calma in fondo alla sua vista,
mi chiedevo che felicità fosse
ad arrivare da così lontano
e non pensavo a nulla
mentre da fuori il sole ci ha fasciati
e rispondeva.

 

(Da Marmo, Einaudi 2007)

Mariangela Gualtieri, Preghiera a sua madre perché muoia

Tu drappeggi dentro ore lunghissime
e un immenso niente ti pondera
tu ricorda un infinito
e le sue stelle. Ricorda
mamma, e non avere paura adesso
che la tua pelle s’è fatta
di velo, e una carezza la strapazza
non avere paura
non andare nel fondo
dove il decubito guasta ogni fiore
e si apre la carne in fessure
e slabbri d’orrore.

Gesù non sa niente di questo
essere vecchi – non sa
lo spavento lungo e un martirio
al rallentatore. Muori ma’,
muori stanotte dolcemente,
fra un respiro, fra i sogni,
e non restare nella carne
non intrattenerti ora, non distrarti
da questo andare imminente
tu sorridente mia, tu dolce,
tu signora allegra che non scendi più le scale
e la notte non puoi alzarti dal letto
e andare a fare pipì – tu
cascatrice favolosa che ti fai solo un graffio
e cadi così spesso da quel tuo vacillare.

Vola – sali – vai in quel posto
che non sappiamo. Diventa luce ma’.
Per me diventa il gran buco del mondo
la scomparsa figura più grande.
Tu discendi con una grazia imbattibile
tu vai giù aggiustando i capelli
e cadi come per cogliere fiori
e chiami la buonanotte
e hai quel sereno dei savi
e dei folli e d’una infanzia
che solo adesso ti godi.
Muori, mammina. Non restare fra
gli spini del tempo. Muori senza dolore.
Non ti attardare
rendi familiare la morte
col tuo abitarla, porta di là
l’immenso femminile
che nello specchietto componi e sbirci
per una voglia di essere fiore
o la fanciulla che si addobba
per lo sposo. Reginella,
svaporata bella signora
che siedi su rotelle come su un trono
di cioccolato, e ancora ridi
e senti il bene e la vita tu l’hai passata
con passetto di danza, canticchiando
Carmen o Norma. Ma’ –
diventa immensa. Tutto diventa.
Canta nel vento. Ridi con ogni foglia
e fai quella luce dei fiori.
E stenditi come la notte
quieta, immensa, eterna.
Tutta terrestre materna luce.

(Da Le giovani parole, Einaudi 2015)

Silvia Bre, Se il nostro luogo è dove

Se il nostro luogo è dove
il silenzioso guardarsi delle cose
ha bisogno di noi
dire non è sapere, è l’altra via,
tutta fatale, d’essere.
Questa la geografia.
Si sta cosí nel mondo
pensosi avventurieri dell’umano,
si è la forma
che si forma ciecamente
nel suo dire di sé
per vocazione.

 

(Da La fine di quest’arte, Einaudi 2015)