Vladimir D’Amora, mettiamoci nella posizione di ferita

mettiamoci nella posizione di ferita
tutti e due facciamoci finire dalla luce
tutto questo screzio è una gloria
d’acqua che s’intorbidisce
perché la sete è un centimetro ancora di
nulla e tu stringimi e soffochiamoci
insieme nella nostra chiarezza
come le fragorose durezze di una vita
e coprimi
e lascia un osso per la strada ora
scura
dove la mia lingua chiama d’incontrarti al
mare totale

 

(Da Anima giocattolo, finalista Premio Trivio 2016)

Vladimir D’Amora, E’ contro un’altra disciplina umana

E’ contro un’altra disciplina umana |

la promessa, |
il numero che abbia del colore |
assai diverso |
questa petizione, |
l’incoscienza. |
Calcolammo |

nei luoghi già presenti da una grazia risentita, |
fossero guerre, |
le intenzioni, |
presto le rime, |
che avrebbero confuso e reso alba la quiete |
la missione. |
Falsificammo |

anche le ore solitarie e si trattava di cospargere gli sguardi |
nel tempo di comune |
distrazione |
consenziente. |
Disegnammo |

cerchi che comprendevano parole come blocchi, |
forme, |
i baci ritrovati, |
sapidi |
gli affanni. |
Chiudemmo |

in questo schermo mutile le vite |
per le vite. |

 

(Inedito)

Vladimir D’Amora, Nessuno Immaginava

Giorgio, 43, figli 1, malato di aspirina e di ipotiroidismo, aveva caldo al sole: 34 gradi percepiti di giorno: e notti con piumone e stufe le varie – sorvegliava e piangeva, sperava e incassava: nel suo solito.
Le maree, alte. Qualche oceano era stato sostituito da emergenti desideri di terra e le rocce oramai posizionatesi, spontaneamente, come catastrofi immonde.
Le borse finanziarie, alti numeri e numeri in discesa: ogni giorno.
Molte, poi, metropoli e moltissime famiglie lottavano contro lo studio di anima, a dire: crollavano relazioni, si distruggevano caseggiati bassi, arcigni, strade già sprofondate negl’imi sentieri dei pomeriggi assolati – o, secondo le stagioni indifferenti, piovosi. Da qualche tempo (le) madri si dedicavano alla spesa fuori l’orario, mentre tegole giacevano in terra frantumate, al pari di nocciole tutte già, nei loro frutti, fattesi oggetto di masticazioni estive. O di festa.
Quando Federica passeggiava con il contorno di macerie che soltanto occhi attratti potevano giudicare risultato di astuzie umane, spendeva sorrisi: nei giorni con il sole e in ore diurne: sorrideva di rado – nelle notti stracolme di sogni già incapaci di fissarsi in fantasmagorie capitalistiche, non dormiva. O provvedeva con un artificio. E coprendosi nel freddo, gestito il solito.
Le panchine, scansate: ed erano molte, le panchine, quelle scomode e irritantisi quasi, per i giocosi, viziati cani e i bovini fuoriusciti. Alcune specie erano state costrette a metamorfosi fondamentali, qualche cigno si inorgogliva come qualche secolo prima nelle fantasie meno impoetiche: le zanzare erano guerrieri senza eserciti. Le foglie, un ricordo.
Le folle… Tutte montate, con ingegno di privacy, nei loculi funzionali. Biondi lombardi, enurgumeni di Islanda, taccagni di Zaire, casalinghe casertane e olandesi, indios spiritati come maschere senza fondo e padroni e maomettani e logici professori in pensione e non: con il segmento dei monitorati e dei salvifici per dislessia: non ne mancavano. Ma erano tutti in folla: a recare ai propri ventri dei guadagni abbotonati. Non erano, però, la folla.
Nessuno reagiva. Nessuno, che non dormisse nelle notti senza calore – laddove la catastrofe si fosse fatta mito. Nessuno ricordava il sole focosissimo, che non li disintegrava.
Nessuno seppe tremare se non in posa.
Nessuno seppe le prose senza dettato.
Nessuno, che nascesse e immaginasse.

 

(Inedito)

Vladimir D’Amora, Preparare maniere di un incontro o l’amore

Preparare maniere di un incontro o l’amore
abbiamo sprecato occhi a cercare tesi
momenti un cuore totale legati
i capelli i piccoli, contati giorni sono un accudimento
reale forse danzando trovi l’Uno e una specie
d’ora che fluisce al supremo pieno
girare siamo rinati
per le cose ben dette. E giungi
però con me agli eventi di una strada
trepidando intorno il mondo è un’àncora e
cresce e la gioia di tutta una
vita alla porta: tienimi bianco varco è
un sogno
ad aspettare i massimi viaggi
nell’uomo la mappa, il dolore, l’essenziale
passare nel mezzo e nel muro già siamo salvi
e io che ti avrei anche inventato.

 

(Da Anima Giocattolo, finalista Premio Trivio 2016)

Vladimir D’Amora, Canta a me – chi?

canta a me – chi?

chi canta? la musa… ciò

è

un io…

un io irato: un

io in un eccesso – in deportazione a Musa

di Musa: un io

scosso da

io: eccessivamente ospitato

ospitale: è

funesto

che io si faccia

cantare

per cantare: è

l’ira è il

funesto

la facies di io

della coalescenza reale

di fu

di è

di sarà: sarà

il canto

un essere da essere

come una istanza di ferita

la stanza è ferita

perché io è in

sfratto

di canto: canta

in un dettato

dichten

rapprendersi

cagliarsi di una voce

di voce urata

ferita

vendicativa

di un reale

istante in un sensibile

eternato

irato

eccessivamente amato.

 

(inedito)

Vladimir D’Amora, Facciamo così

Facciamo così

Facciamo così, mettiamoci la calda pezza dei tempi
altri, buoni alla bisogna dei sognatori. E non lasciamoci
giù, nel gorgo infame delle umide pietre e aguzze,
ch’erano parole mie tue, nostri insozzati anni a morte.

Facciamo così, distanza di burro di culo, e fingiamoci
fratelli senza madre, e senz’aria, colla di pesce e
di bianca natura e spumosa, contingente e più.
Ogni volta, ogni pianto, tu stappi la bottiglia della sera, nel mentre
io mi fingo vapore fermo, grasso nella pentola.

Facciamo così, rispondiamo agli urli dei meccanici, ai bituminosi
richiami delle sere senza fiches, piene di piscio punito.
E saremo fratelli ingarbugliati assai, assaliti dalla strada.

(Poesia inedita, 2011)